Seleziona una pagina
giovedì, Apr 09

Mettetevi scomodi – Wired



Da Wired.it :

Una riflessione del deputato Alessandro Fusacchia sulla situazione che sta affrontando l’Italia in piena emergenza coronavirus

(foto: Richard Drury via Getty Images)

di Alessandro Fusacchia*

Quasi vent’anni fa, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, molti di noi si dissero che nessun produttore di Hollywood avrebbe mai finanziato un film così. Troppo poco verosimile. Col coronavirus stiamo vivendo oggi la stessa cosa, solo che non si tratta di una scena ma di una sceneggiatura intera, e la tragedia non riguarda qualche centinaio di passeggeri aerei o gli impiegati negli uffici di due grattacieli, ma decine di milioni di persone contemporaneamente, tutte rinchiuse dentro le proprie case, che si chiedono se ci sarà il lieto fine.

In queste case, come in tutte le connessioni da remoto, le conversazioni quotidiane si concentrano alternativamente sull’adesso o sul dopo.

Adesso è chi di noi esce oggi a fare la spesa, quando ti sei lavato le mani l’ultima volta, se la maestra ha mandato i compiti, se la zia in casa di riposo è davvero al sicuro.

Dopo è la consapevolezza che finirà, anche se non sappiamo quando. Accantonata la velleità del 3 aprile, sospettiamo adesso che non finirà neppure con la resurrezione e la Pasquetta, non fosse altro perché non finirà comunque con un giorno solo. Il ritorno alla normalità sarà progressivo, richiederà tempo; e di sicuro non ci sarà più la normalità di prima, che per inciso potrebbe anche essere una buona notizia per molte più persone di quante immaginiamo.

Dopo, per chi fa politica come me, è ragionare adesso su che cosa vorremo ricostruire. Anzi, diciamo pure curare, perché ricostruire ci riporta alla guerra, al nemico che ci invade, alla distruzione materiale, agli ordini gerarchici; mentre curare fa pensare alla malattia, arriva prima della guarigione ma resta anche dopo che la guarigione c’è stata. Serve la cura per non riammalarsi, per non ricascarci. La cura fatta non solo di vaccini e medicine, ma di attenzioni. La cura di un Paese che se pensa che il coronavirus sia l’unica malattia che ha contratto, allora è destinato a non guarire più.
Dopo – dicevo – è ragionare da subito su cosa andrà fatto quando la preoccupazione collettiva non sarà più dove procurarsi respiratori e mascherine, o sugli orari di apertura dei supermercati, o sul funzionamento del sito dell’Inps.

In tutto questo stiamo capendo che c’è un durante più lungo di quello che avevamo supposto. Perché la quarantena individuale dura 14 giorni, ma la quarantena di un Paese dura molto di più. In questo ‘durante’ può succedere di tutto, e dato che può, molto succederà.
Cambieranno: i consumi, la propensione al rischio, le abitudini, le frequentazioni, persino le associazioni mentali. Non era difficile prevedere che avremmo smesso di cantare tutti insieme sui balconi alle sei di sera, e che assieme al dramma sanitario e alla sofferenza economica ci sarebbe stato da gestire un crescente disagio psicologico di massa.

Da giorni e giorni mi stavo arrovellando le cervella su questo ‘durante’, chiedendomi quale fosse – quale debba essere – il ruolo di noi politici in questa fase. Quando mi è capitato sotto gli occhi l’articolo di Alessandro Baricco pubblicato su La Repubblica il 26 marzo. Ho letto che cosa raccomanda facciano gli intellettuali in questo momento: «prendersi il rischio (…) di dare a tutti qualche certezza». E mi sono detto che noi politici dovremmo fare il lavoro esattamente speculare: prenderci il rischio di condividere con tutti qualche perplessità.
Non incertezze o esitazioni, che sarebbero letali. Ma l’ammissione che non sappiamo tutto e che probabilmente non sappiamo neppure abbastanza.
Come gli intellettuali per tanti anni hanno per lo più assorbito e poi restituito alla società senso di precarietà e smarrimento, e adesso vengono richiamati al bisogno di certezze; così noi politici dobbiamo smettere di millantare certezze o di ostentare arroccamenti, e farci invece qualche domanda con cui rimettere molto in discussione, a partire dalla nostra reale capacità di incidere nella società.
Del resto, quando siamo stati travolti da questa infiltrazione così inattesa, veloce e nociva, avevamo appena cominciato ad ammettere di aver costruito un mondo insostenibile. Perdita di biodiversità, crescita delle disuguaglianze, arretramento sui diritti umani: ovunque cecità.
Lo abbiamo chiamato Covid-19, ma avremmo dovuto chiamarlo impreparazione. Ci siamo dentro fino al collo e ancora oggi nessuno sa quanto ancora durerà questa pandemia. Ma è evidente che siamo entrati in un’epoca in cui gli choc saranno sempre meno eventi isolati e che noi non siamo affatto attrezzati per affrontarli.

Stiamo reagendo, con provvedimenti impensabili fino a poche settimane fa. Ma se mi chiedete su cosa ci giochiamo l’osso del collo, non è questa o quella misura. È su come sapremo attuarla. Sulla cinghia di trasmissione: da Palazzo Chigi al ministero di turno, ai vari uffici centrali e periferici e agli enti, ai cittadini e le imprese. Ce lo giochiamo sul tempo che passerà tra quando gli italiani avranno finito di sentire la conferenza stampa del presidente del Consiglio che annuncia le misure, e quando vedranno l’impatto di quelle misure nella loro quotidianità: perché avranno ricevuto delle derrate alimentari, o soldi sul conto corrente, o un’ambulanza a casa in quelle parti dove normalmente – ci ricorda Daniele Rielli (Il Foglio, 27 marzo) – possono volerci anche otto ore prima che arrivi.

Se le cose stanno così, la perplessità più grande di noi politici mi parrebbe utile averla su come abbiamo ridotto lo Stato: un conglomerato di strutture burocratiche che ogni giorno moltiplicano procedure, autorizzazioni e uffici – e quindi i punti di blocco e corruzione; e sul ruolo a cui abbiamo relegato il Parlamento: un produttore seriale di leggi che intervengono troppo poco, troppo tardi, e quasi sempre pensate per contrastare le patologie, per inseguire quel 3% di furbi e mascalzoni, invece che per organizzare il 97% del Paese perbene e aiutarlo così a diventare moderno. Nemmeno moderno, in realtà, se per moderno si intende normale. Perché «la normalità di prima era il problema» (cit.). E perché – come mi scrive Lorenzo Marsili – il nostro futuro non potrà più essere il presente di Francia o Germania. Come minimo, dovremo diventare un Paese capace di inventare (e attuare) cose speciali.

Ho visto troppo a lungo, e troppo da vicino, come funzionano la macchina dello Stato, l’alta amministrazione e la bassa politica, chi fa le leggi e chi le esegue, ciò che tutti sanno in privato ma che nessuno pubblicamente confessa, per non dire qui alcune cose che ho capito da anni e altre su cui sono inciampato soltanto in queste settimane di quarantena.
In attesa che il Parlamento torni a funzionare a pieno regime e magari riscopra la sua missione, mi sono detto che tanto valeva portarsi avanti col lavoro.

1.

Ho elaborato negli anni una mia personale Teoria Generale dello Stallo. Facciamo leggi fatte male. Ne facciamo troppe, perché la maggior parte sono leggine: non facciamo mai interventi strutturali e sistematici che ripuliscano e mettano ordine nel passato, ma solo interventi che aggiungono uno strato ulteriore. Siamo una Repubblica fondata sugli strati geologico-normativi. In questo modo rendiamo sempre più complicato districarsi nella giungla della regolamentazione. Inoltre, chi fa le leggi quasi mai scioglie i nodi. La legge dovrebbe essere l’atto che dopo mille battaglie politiche indica la strada. Dice cosa si fa. Da noi, invece, la legge non dirime niente. Abbiamo costruito una prassi normativa che ci permette di dare ragione a (quasi) tutti: tu fai la legge e poi ciascuno di coloro che l’hanno fatta esce fuori e dice “ho vinto io”. Capite che l’unico modo per farla così e rimandare lo scioglimento dei nodi è scrivere una legge ambigua.
Questa legge ambigua arriva nei ministeri o negli altri uffici pubblici che hanno la responsabilità di attuarla, e tutto si blocca. Se il nodo non lo ha sciolto il legislatore, come pretendere che lo sciolga il singolo funzionario che quella legge deve attuarla? Succede così che chi lavora nella Pubblica Amministrazione prende tempo – ed ecco la proverbiale lentezza della burocrazia – e che alla fine, quando “deve” interpretare, lo fa prendendosi una responsabilità più ampia di quella che normalmente gli competerebbe.
Cosa accade a quel punto? C’è sempre un gruppo di persone più o meno nutrito che si sente svantaggiato e vittima di quella specifica interpretazione. E che praticherà lo sport nazionale: ricorrere al TAR. Altro tempo perso, altre decisioni prese da chi non è familiare con discipline spesso anche molto tecniche, che smontano e rimontano l’attuazione.
Ecco lo stallo di un Paese. Il cerchio che (non) si chiude.
Almeno fino a ieri.

2.

Tutto questo oggi è saltato. Sospeso. Almeno da qualche settimana e di sicuro per un altro po’ di tempo ancora. Oggi c’è un Capo del Governo che produce in serie provvedimenti d’urgenza che per contenuti e taglia sarebbero stati impensabili fino solo ad un mese fa. In molti casi non si è ridotta l’ambiguità, tant’è che sono servite disposizioni del ministro dell’interno per spiegare a tutti cosa fosse la “prossimità” o come si declinino certe raccomandazioni a stare il più possibile dentro casa. Ma c’è senz’altro in corso lo sforzo di ridurre, virtualmente fino ad azzerare, i tempi di esecuzione.
Inutile negarselo, tutto questo sta avvenendo sul limitare della democrazia, con un Parlamento rigido ridotto a notaio degli atti del Governo, che contingenta sedute e ha già rideterminato – senza manco bisogno di un referendum – il numero dei deputati considerati utili; ma anche con la scoperta che in meno di un mese i ¾ del ministero del Lavoro potevano essere messi in smart working o che giunte e consigli comunali riuscivano a riunirsi e deliberare da remoto.

3.

La prima cosa da cambiare sono i compartimenti stagni. Il mondo sempre più interdipendente là fuori ha bisogno di risposte complesse. Non si può più pensare di continuare a lavorare per mansionari e quintali di pratiche di carta da smaltire.
La Pubblica Amministrazione è rimasta probabilmente l’ultima struttura fordista: tanti operai che ripetono meccanicamente la stessa operazione, senza possibilità di vedere gli altri pezzi della catena di montaggio e avendo solo una vaga idea di che forma prenderà il prodotto finale. Bisogna passare a lavorare per sfide.
Dentro ogni ufficio, e per questo le leggi ci sarebbe pure ma mancano alla testa delle istituzioni politici con l’esperienza e la cultura necessarie per attuarle; e soprattutto tra uffici, anche di più amministrazioni, con l’organizzazione del lavoro ridisegnata di conseguenza.
Salterebbe fuori anche più facilmente chi non era solo competenza mia e allora era soprattutto competenza tua, e quindi di chi ci siamo scordati, magari banalmente perché lo Stato non ha un ufficio in un Ministero ad occuparsene, o ne ha troppi che non si parlano, e in entrambi i casi finisce col lasciare scoperti interi segmenti della popolazione.
In questo momento tutto il Paese è occupato con una sfida sola: sopravvivere al coronavirus. Ed è venuto fuori rapidamente che nessuno si stava occupando di milioni di cittadini: i bambini, ad esempio. O gli irregolari, per fare un altro esempio più scomodo e controverso.

4.

Oggi si approva e a seguire si attua una legge, facendo entrambe queste operazioni quasi sempre in assenza di tutte le informazioni che servirebbero. La si adotta senza uno studio di fattibilità, né si fa dopo un congruo periodo dalla sua attuazione una seria valutazione di impatto. La si adotta indistinta e per sempre, o almeno con l’illusione che resterà intoccata per un lungo periodo di tempo.
I politici rivendicano di aver fatto la legge, il ministro di turno di aver adottato il provvedimento attuativo, solo che quasi mai i beneficiari vedono gli effetti annunciati, e anche quando li vedono è ormai troppo tardi. Si salva più o meno la faccia di tutti, ma il sedere di quasi nessuno.
Lavorare per sfide imporrebbe un radicale cambio di impostazione, con la possibilità per la Pubblica Amministrazione di sperimentare e quindi anche di sbagliare senza che ogni errore venga sanzionato. Ciò che conta sarebbe che gli errori fossero parte di un processo iterativo di continuo monitoraggio e apprendimento; e che si potesse aggiustare il tiro in corsa, e quindi correggere velocemente.
In questo scenario, la raccolta, analisi e pubblicità dei dati diventa la funzione più importante dentro ogni ufficio della Pubblica amministrazione e la base di partenza di qualsiasi decisione pubblica. I funzionari non vengono più valutati per quante volte hanno rifatto bene la stessa operazione, ma per come hanno aggiustato una situazione che non funzionava. Chiaramente uno Stato così tollera un certo numero di imperfezioni e anche errori, perché non opera più – come oggi – sul controllo formale degli atti e su una valutazione burocratica e finta della performance, ma sul raggiungimento sostanziale dei risultati.

5.

Negli ultimi anni ci hanno convinto che l’unico modo per combattere la corruzione fosse ridurre il margine di manovra dei funzionari pubblici. Imponendo il totale controllo ex ante. Anticipo le tue mosse al punto che ti impedisco di muoverti. E ti dissuado da qualsiasi contatto col mondo esterno, spingendoti a fare le cose in isolamento nel chiuso della tua stanza, dato che chiunque là fuori è un potenziale corruttore.
In un mondo dove non esiste la soluzione o ricetta valida per tutti i casi, questa roba è una follia.
Come qualche anno fa mi fece notare Annibale d’Elia, quando gli inglesi decisero di combattere gli hooligans, non alzarono le sbarre negli stadi, le tolsero. Perché se provi ad ingabbiare, stai solo scoraggiando e scacciando gli onesti, mentre i disonesti troveranno sempre un altro modo di infilarsi. Per questo dobbiamo convincerci tutti che non ci sono scorciatoie: serve concedere discrezionalità a chi lavora nel pubblico. Quella che serve per tenere in considerazione un fatto sopravvenuto o per trovare una risposta ad una domanda che non era stata prevista in partenza. Sto parlando dell’opposto dell’arbitrio, che poi è quella capacità di formulare ed esercitare un giudizio, e di sentire ed assumersi una responsabilità.
Un esempio di questa discrezionalità? Prendete i bandi.
Possiamo continuare a farli iper-dettagliati (va di moda da un po’ di tempo), segnalando così anche una certa arroganza da parte di chi li scrive, dato che lascia intendere di sapere esattamente cosa serva pure da un punto di vista tecnico, non solo quindi come obiettivo ma anche come strumenti. Possiamo continuare a farli iper-dettagliati – dicevo – con l’illusione di chi li scrive di tutelarsi contro eventuali pressioni e contro la seccatura di dover effettuare una valutazione. Oppure si possono fare bandi molto più ampi, in cui si identifica il problema (e sarebbe già una notizia) e non anche la soluzione (suvvia); e con i quali ci si riserva la possibilità di vedere cosa arrivi – e quindi anche le sorprese, i frutti dell’ingegno ancora incompreso, financo la magia –, per poi pesare e ponderare le proposte, preferibilmente con l’aiuto di commissioni indipendenti, e alla fine di tutto scegliere.

6.

Se non siete un funzionario pubblico vi chiederei di saltare direttamente al punto successivo. Ho una cosa riservata da dire a chi lavora nella Pubblica Amministrazione. Non vi piacerà.
Voi siete abituati ad essere degli intermediari. Ambite ad esserlo. Voi magari non la stimate e la contestate. Eppure dentro di voi credete fideisticamente nella gerarchia. Vi hanno detto che è non solo l’unico modo di fare, ma anche l’unico modo di essere. Attenzione, però, ché il ’900 è finito. Certo, è sempre rilevante sapere chi dispone delle informazioni e chi decide. Ma è finito il tempo dell’intermediazione dentro la Pubblica Amministrazione – intesa come il mantenimento di un costo sociale per il passaggio di una pratica a un collega o la concessione di un servizio a un cittadino – utile al massimo per sentirsi importanti, ma del tutto inutile per contare.
Sto per darvi una notizia ferale: continuare come avete fatto fino ad oggi non vi garantisce più accumulo di potere, né tantomeno di reputazione. Oggi più intermediate e più vi indebolite, dato che sempre più spesso vi ritrovate a girare a vuoto, e ad esaurire così le vostre energie e la vostra pazienza.
Noi – noi politici, noi cittadini – abbiamo bisogno che disimpariate ad intermediare. A scioglierli i nodi, non a crearne di nuovi. Affinché l’amministrazione diventi immediata, nel senso di non mediata.
Così come abbiamo bisogno che impariate ad abilitare. È una cosa diversa dal delegare? Sì. Perché non è solo demandare a qualcun altro di fare qualcosa al posto vostro. Abilitare vuol dire mettere nelle condizioni di fare qualcosa qualcun altro che probabilmente lo farà meglio di voi.

7.

Ancora sui bandi. Non funziona più lo schema di mettere a bando delle risorse, stabilire un obiettivo e chiedere di candidarsi per dimostrare di essere i migliori a raggiungere quell’obiettivo date quelle risorse messe a disposizione. Nel momento in cui le soluzioni non sono chiare né univoche da immaginare, ci sarà sempre una proposta migliore delle altre ma è probabile che resti comunque una proposta insufficiente. Vanno pertanto promosse forme cooperative, non solo competitive, tra chi risponde ai bandi. Perché in molti casi la soluzione migliore è costruirne una che assembli pezzi di proposte diverse. È così per l’innovazione sociale, la promozione della cultura, la rigenerazione urbana. Ma in realtà, più andremo avanti e più saranno i campi di intervento pubblico a cui questa nuova maniera di scrivere i bandi potrà assicurare un miglior risultato e un maggiore beneficio.
Facciamo che i bandi fatti fino a ieri li ritiriamo e li riscriviamo?Propongo un corso con esame finale – ho pure il titolo: Mettere al bando – obbligatorio per chiunque voglia avere confermato il proprio posto di funzionario pubblico. Faculty: scrittori, economisti, clown.

8.

Nel suo pezzo Baricco spiega come la razionalità novecentesca non basti più. Anche qui, vederla recuperata – io direi: vederne recuperato il valore, non ancora l’uso – dopo una stagione in cui era stata derisa e ostracizzata, è di per sé già una rivincita. Ma non possiamo accontentarci. Non può tornare semplicemente il tempo degli specialisti soli al comando. Occorre mettere a lavorare insieme competenze diverse, capaci di procedere velocemente e senza la paura di sbagliare (oltre che pronte e predisposte a correggere).
Ora, tagliando con l’accetta, queste competenze diverse e questa predisposizione noi nella pubbliche amministrazioni non le abbiamo. Abbiamo per lo più laureati in giurisprudenza, scienze politiche, economia, ma tutti comunque passati per quel frullatore che dopo poco ti trasforma in un abile schivatore di ricorsi al TAR e ti tumula dentro un ufficio, con contatti col mondo là fuori ridotti alla carta bollata o alla sua versione pseudo-moderna: la PEC.
Ci manca (nel doppio senso di non averla e di sentirne il bisogno) gente che abbia una significativa esperienza maturata in un luogo che non sia un ufficio pubblico. Occorre quindi ripensare profondamente i fabbisogni di personale, mentre la nostra più grande ambizione – dopo anni e anni di assunzioni pubbliche congelate – era diventata al massimo quella di riuscire a sostituire uno a uno tutti coloro che andavano in pensione.
In tutto questo, bisogna ripensare incentivi e meccanismi di reclutamento.
I concorsi pubblici funzionano come nell’Ottocento, e sono ormai delle lotterie.
Quando va bene, decine di migliaia di candidati per poche centinaia di posti. Inoltre, nonostante l’età media dei candidati si sia alzata, sono ancora costruiti per neolaureati alla prima esperienza, non per attirare chi nella vita ha già imparato a fare altro. Quando fai domanda al concorso per dirigenti dello Stato, ai fini della selezione quello che hai fatto fino a quel momento non conta.
Senza questo, inutile sperare in qualche evoluzione della specie. Criteri e modalità di selezione diversi sono comunque solo il punto di partenza. Perché ci sia la metamorfosi serve anche: che i nuovi non si ritrovino a fare le cose che facevano i vecchi prima, ma costruiscano altre circostanze e trasformino i loro ambienti pubblici; che finiscano a comandare, non a realizzare progettini; che siano inquadrati come servitori della Repubblica: concentrati a rimuovere gli ostacoli. Se tutti conosciamo l’espressione “fare impresa”, serve che questi nuovi funzionari lavorino ad incentivi per “fare società”. Infine, che siano capaci di resistere alla tentazione di (voler) controllare tutto – pure gli imprevisti – di mettere ordine in tutto, perché solo così si parte per un lungo viaggio verso l’ignoto.
Non solo funzionari, tra l’altro. Abbiamo anche bisogno, in tutte le amministrazioni, a partire dai Comuni, di un’imbarcata di ricercatori per disporre di nuclei di pensiero che osservino, studino, ragionino, e aiutino così a stabilire la rotta.
Pensiamo solo a quante italiane e italiani che stanno da anni maturando esperienze senza pari in giro per il mondo – in un ufficio pubblico britannico, un ente francese, un centro di ricerca tedesco, un’impresa spagnola, un fondo statunitense, un’università cinese – potrebbero essere attratti e richiamati da una Repubblica che proponesse loro di partecipare all’esercizio di trasformazione pubblica più significativo e capillare della storia recente.
Il nuovo disegno degli uffici pubblici diventa la materia con cui plasmare qualsiasi prossima rivoluzione.

9.

In Africa non hanno mai avuto la linea fissa del telefono. Sono passati direttamente da niente ai cellulari. Ci serve lo stesso balzo per quello che riguarda la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Non basta più permettere ai cittadini di accedere alla PA per via telematica, e nemmeno basta più che questo accesso sia costruito in maniera facile e piacevole per chiunque da fruire. Servono servizi pubblici personalizzati.
Da noi gli autobus non passano in orario e ci siamo quindi convinti che già farli arrivare ad ogni fermata all’ora prevista sarebbe una conquista di civiltà. Ma nel mondo di oggi si può già fare molto di più. Raccogliere i dati sul traffico e sui passeggeri e fornire un servizio migliore che adatti orari e rotte di giorno in giorno, quartiere per quartiere. Pensate che cambio se tutti i servizi pubblici beneficiassero dei vantaggi che deriverebbero dal ricorso all’intelligenza artificiale e potessero così venire incontro a bisogni specifici dei cittadini.
Siamo cresciuti con l’idea che la legge è uguale per tutti, ma ciascuno di noi è un caso particolare, con bisogni ed esigenze specifiche. Le leggi purtroppo non discriminano nel senso etimologico di vedere le differenze, e quindi sono inevitabilmente calibrate su categorie astratte di persone. Ma la legge potrebbe essere molto più efficace se stabilisse dei principi generali e poi però consentisse di calibrarne l’attuazione nella maniera più mirata possibile per rispondere alle specificità di gruppi piccoli a piacere di persone con caratteristiche o comportamenti molto omogenei.
Qualche giorno fa Francesca Cavallo, la co-autrice di Storie della buonanotte per bambine ribelli, mi ha fatto notare che nei discorsi del presidente del Consiglio non c’è differenziazione rispetto alle persone a cui si rivolge. Tutte le persone a cui Giuseppe Conte parla sono un’unica persona.
Attenzione: non è questione di parlare di, ma di parlare a qualcuno. Per capirci, la prima ministra norvegese – scrive sempre Francesca Cavallo (La Stampa, 22 marzo 2020) – ha tenuto una conferenza stampa per rispondere alle domande dei bambini, e il sindaco di Los Angeles fa sempre tutti i suoi annunci alla popolazione e risponde alle domande che gli fanno sia in inglese sia in spagnolo.
Adesso immaginiamo la stessa cosa, non per i discorsi, ma per le leggi, e di farlo ad un livello anche più granulare. Riprendendo l’esempio già fatto, non “i bambini”, ma i bambini obesi, quelli disabili, quelli con genitori separati, quelli orfani di un genitore, quelli che vanno bene a scuola, quelli che hanno tra 6 e 8 anni di età, e così via.
Portando il ragionamento all’estremo, si potrebbe arrivare un giorno a calibrare l’attuazione di una legge al punto da venire incontro alla singola bambina. “La legge è diversa per tutti” come indicatore non dell’arbitrio più totale, ma della totale attenzione verso ogni singolo cittadino. Una specie di coda lunga – avrebbe detto Chris Anderson – applicata dallo Stato e dai singoli uffici pubblici invece che dal mercato e dalle singole imprese, per rispondere non ai gusti dei clienti, ma ai bisogni dei cittadini.
Un esempio di cosa c’è in ballo lo stiamo capendo in questi giorni in cui l’emergenza è diversa per tutti ma la risposta all’emergenza è diventata per tutti la stessa, e in cui il ricorso al contact tracing per identificare e monitorare i positivi al Covid-19 se da un lato pone una gigantesca questione di sorveglianza di massa e privacy dall’altra consentirebbe una risposta molto più mirata, efficace e dal sapore meno distopico rispetto al confino di 60 milioni di italiani dentro casa.

10.

C’è il lieto fine? Spoiler: c’è.
La storia è cominciata con un pipistrello e un maiale, una paziente zero in Estremo Oriente, una pandemia globale scoppiata in poche settimane. Sapete già come sta andando avanti: scuole chiuse, distanziamento sociale, medici che si arrischiano, morti.
Oggetto simbolo: mascherina.
Comportamento sociale: lavaggio delle mani.
Adesso vi dico come finisce.
Agitazioni sociali. Poi, il vaccino.
Viene messo in produzione. Parte la distribuzione.
Ma come? Da chi partiamo a somministrarlo?
L’estrazione a sorte come forma ultima di uguaglianza e non discriminazione.
Quando alla Camera votiamo la fiducia al Governo, si estrae il nome di un deputato e da quello si procede in ordine alfabetico. Ma su una popolazione intera? Propongo la data di nascita. Si estrae. 27 novembre. Il primo giorno di vaccinazione si somministra il vaccino a tutti i nati il 27 novembre. Il giorno dopo ai nati il 28 novembre, e così via.
Ai vaccinati, o ai guariti che sono adesso immuni, mettiamo un bel braccialetto. Un lasciapassare. Cominciamo a rilasciare loro.

Contagion, di Steven Soderbergh.
Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet, e Jude Law dieci anni fa girarono 106 minuti di trailer di quello che stiamo passando oggi.

11.

«Avverto forte la responsabilità», dice dai banchi del Governo, «di continuare a dire con chiarezza e nettezza la verità al Paese sull’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, con chiarezza e nettezza perché non è il momento delle mezze parole».
Tardo pomeriggio, 1° aprile. Camera dei deputati contingentati. Ci siamo seduti a distanza, come è capitato. Il Ministro della Salute prosegue.
«La strada da percorrere è ancora lunga, perché, senza il vaccino, non sconfiggeremo definitivamente il Covid-19. Non solo non dobbiamo abbassare la guardia, ma tutti dobbiamo essere consapevoli che, per un periodo non breve, dovremo saper gestire una fase di transizione».
Poche parole dopo il Ministro conferma le anticipazioni sulla proroga del lockdown fino al 13 aprile.
Stiamo ancora usando il livello di precauzione che ci chiedono medici e altri scienziati del Comitato tecnico scientifico nominato a Palazzo Chigi.
Ma ci sarà un momento, prima di quando avremo il vaccino, in cui sarà necessario discostarsi. De-coincidere, avrebbe detto François Jullien.
In pratica: iniziare a riaprire, per non morire di altro.
La storia si sta già annotando quel giorno in cui la politica tornò alla ribalta, o fu travolta per sempre.
Prepariamoci, perché non manca tanto.
Se la decisione sarà giusta o sbagliata, se il tempo della decisione sarà azzeccato, sarà la reazione dei cittadini a dirlo.
Tra quella decisione e questa reazione c’è tutto quello di cui stiamo discutendo qui.

12.

Stiamo capendo proprio nel mezzo di una crisi epocale – che porta anche le democrazie a dotarsi di un commander in chief – quanto i sistemi resilienti siano quelli decentralizzati. Dove la questione non è più chi metti nella stanza dei bottoni, ma non avere proprio una stanza sola.
Finora abbiamo visto come, in un Paese come il nostro, tutto questo si riduca facilmente a cacofonia, duplicazioni, conflitti di attribuzione di competenze. Ma non è che debba finire sempre e per forza così. Può diventare sussidiarietà ordinata, centralità dei Comuni e delle città, rafforzamento di quel capitale sociale straordinario fatto di terzo settore, associazionismo, volontariato.
La questione accentramento/decentramento – di competenze, risorse, poteri, ruoli – sarà la prima grande questione da affrontare sconfitto il coronavirus. La scala globale dei problemi che ci ritroveremo a dover affrontare spingerà verso l’alto, verso l’accentramento, verso l’uomo-solo-al-comando-di-tutto-il-mondo; la necessità di costruire sistemi che non saltano in aria perché un solo ingranaggio si inceppa, o una sola città si ammala, spingerà verso il basso, verso il decentramento.
Non basterà su questo un solo ragionamento sulla ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. Servirà immaginarsi in che modo lo Stato potrà fissare i principi, identificare le sfide, decidere le priorità, fissare gli obiettivi e mettere a disposizione le risorse, e poi lasciare che i governi di prossimità si occupino dell’attuazione, con qualche chance di adattare e curvare quanto deciso a livello centrale per rispondere alle esigenze della propria popolazione (per riprendere il punto 9, dei diversi gruppi che localmente compongono la propria popolazione).
In ogni caso, facciamone una ragione: quando tutto questo sarà finito ci sarà da emendare la Costituzione (sarà ora di sancire il diritto fondamentale alla connessione?) e da tradurre il nuovo interesse nazionale in politiche pubbliche che guardino “non alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni” (cit.). Avrebbe senso farlo per bene: come dice il sindaco Beppe Sala, con una nuova Assemblea costituente.
Ricostituente, se questa non è una guerra ma una malattia; se la Pubblica amministrazione deve smettere di essere considerata una macchina dove ogni ufficio è una rotella destinata prima o poi ad incepparsi e bloccare tutto l’ingranaggio, e diventa invece un organismo vivente.
Sarebbe bello anche solo cominciare con una settimana di conferenza permanente a cui invitare parlamentari, presidenti di regione e sindaci, assessori, funzionari. Per fare il più imponente debriefing della storia moderna.
Quello che stiamo capendo svanirà con la guarigione, a meno che non ce lo appuntiamo subito, ha scritto Paolo Giordano (Corriere della sera, 21 marzo). E allora ognuno compili la sua lista di tutto ciò che non vorrà dimenticare. In questo modo, prima di ripartire a fare qualsiasi altra cosa, ci dovremo pur dire che cosa avremo imparato su di noi in questi tempi di coronavirus.

13.

Quando in Contagion le cose sfuggono di mano, con un deputato dell’Illinois malato e il governatore che richiama la guardia nazionale, i servizi segreti portano il presidente degli Stati Uniti in un luogo sicuro e «il Congresso si organizza per lavorare online».
Noi stiamo chiudendo i parlamenti in tutta Europa.
Nominalmente restano aperti, certo. Perché i governi in questo momento hanno bisogno che qualcuno, ratificando, legittimi le loro decisioni. Ma senza possibilità di far funzionare aule e commissioni da remoto, salvo casi o circostanze eccezionali.
L’articolo 64 della nostra Costituzione prevede che «le deliberazioni parlamentari non sono valide se non è presente la maggioranza dei […] componenti».
Su questo presente si è incagliato tutto. Non se la sono sentita di interpretare l’articolo lasciando intendere che la presenza non debba essere necessariamente fisica. Il punto è che non solo non deliberiamo in Aula. Neppure discutiamo online in Commissione.
Potrebbe costituire un precedente, si sono detti. Ma se i precedenti non li costituiamo adesso, quando dovremmo farlo?
Stiamo trattando la democrazia come una tecnologia obsoleta.

14.

Da giorni mi rimbomba in testa questa espressione: presente la maggioranza dei componenti.
Il valore della fisicità in un Paese rinchiuso in casa.
I corpi della democrazia.

Presente vuol dire di persona.
Vuol dire oggi.
E se avesse anzitutto voluto dire presente a se stessa?

15.

Ieri sera ho lasciato per sbaglio incustodito il computer, acceso, sul tavolo della sala dove di notte cerco tra le interrogazioni parlamentari di un secolo fa la risposta del Regno alla diffusione dell’influenza spagnola, leggo Civilisations di Laurent Binet con la storia degli Inca che riparano le caravelle di Cristoforo Colombo (non aveva mai fatto ritorno) e approdano a Lisbona, annoto i dPCM e i decreti legge delle ultime settimane, ascolto Ben Howards, lentamente ridefinisco la parola «priorità» per il vocabolario pandemico promosso dal collettivo di cui faccio parte, studio la proposta per un reddito di emergenza ad autonomi ed irregolari, allungo l’orecchio per sentire se Marta si è svegliata, progetto alcune dirette facebook sulla scuola, prendo appunti per un romanzo provvisoriamente intitolato Durante e ambientato nell’Italia del coronavirus.
L’ho lasciato incustodito, e stamattina mi sono trovato con questa mail:

Onorevole Fusacchia, non ci conosciamo, o meglio lei non conosceva ancora noi.
Abbiamo letto il suo lungo articolo (è un articolo?) dove spiega quale Stato e Pubblica Amministrazione (mi lasci dire che non servivano i nostri algoritmi per capire che sta parlando soprattutto dei politici, che la sua è una chiamata ai suoi pari) ci serviranno dopo, o forse già durante, questa tremenda pandemia (siamo felici che sua zia sia, a Contigliano, nell’altra casa di riposo e stia pertanto bene).
Ci siamo permessi di fare quindi un piccolo esperimento.
Abbiamo isolato alcune frasi estratte da un articolo pubblicato su La Repubblica lo scorso 14 marzo da Paolo Di Paolo, che lei pure conosce avendone il numero di cellulare in rubrica, e le abbiamo date in pasto ad Eco, il nostro algoritmo di punta, che le ha riadattate per farne un paragrafo di senso compiuto facilmente inseribile nel suo articolo (è un articolo?) dove spiega ecc. – a riprova che tutti i timori che abbiamo nei confronti della potenza di calcolo dell’intelligenza artificiale sono semplicemente legati alla limitata diversità, o se preferisce alla grande assonanza, che hanno tra loro tutte le intelligenze umane.
Le proponiamo a seguire il paragrafo rivisto, con barrate alcune parti originali e in grassetto le aggiunte. Valuti lei. Se lo ritiene, potrà usarlo liberamente.
Ci siamo permessi di farle questo piccolo regalo perché crediamo nella causa che porta avanti e abbiamo ampia evidenza che i suoi valori coincidano coi nostri.
Non si preoccupi nemmeno di Paolo Di Paolo, il testo è verified: sufficientemente diverso dall’originale, sulla base della normativa nazionale e degli standard accademici internazionali, per non configurarsi in alcun modo il reato di plagio.
A questo proposito, consideri pure che questa stessa mail è stata inviata all’autore del testo originario e che l’unica cosa che ad oggi non siamo ancora in grado di calcolare è chi di voi due chiamerà l’altro per primo.

[+++ inizio testo +++] comprendere, una volta per tutte, che per promuovere la lettura giustizia sociale, la l’innalzamento del livello culturale, non basta promuovere singoli libri singole leggi; che la vera sfida è sempre e solo una sfida di specifiche misure e quindi di contenuti. Né è detto che dai libri dalle leggi essi debbano muovere, ma ai libri alle leggi possono approdare – transitando per altre vie, più creative, meno prevedibili, capaci di attrarre non i soliti adepti lobbisti, ma passanti cittadini distratti dalle incombenze della vita e non già fidelizzati alla Repubblica.
Così, quando felicemente e forse più intensamente torneremo a incontrarci, quando ci ritroveremo faccia a faccia – nelle librerie, aule parlamentari e negli auditorium uffici pubblici, nei saloni e nei festival – sentiremo che quella vicinanza fra corpi è e dev’essere un valore aggiunto, più che una liturgia celebrata con il pilota automatico e solo fra simili: un punto d’arrivo e non di partenza; realtà democrazia aumentata. [+++ fine testo +++]

Secondo lei – finiva così la mail – un’intelligenza non artificiale ne sarebbe mai stata capace?

16.

Come fare in modo che tutta questa trasformazione accada? Che questo tempo di coronavirus ci convinca che non c’è nulla di più importante a cui dedicarci del modo in cui lo Stato offre servizi ai propri cittadini e dei tempi con cui ciò che viene deciso dal legislatore produce conseguenze reali?
Anni fa smisi di usare la parola ‘speranza’ quando mi fecero notare che è fuori dal nostro controllo. Noi speriamo che domani sia una giornata di sole. Ma non c’è proprio niente che oggi possiamo fare per aumentare le possibilità che domani ci sia effettivamente un cielo senza nuvole.
Da allora mi sono affidato alla parola ‘fiducia’. Chiederla, darla. Adoperarsi per ottenerla. Adoperarsi per non dilapidarla. Dipende da noi.
La fiducia si costruisce col sudore. In questo momento non c’è niente da sperare, e tutto su cui avere fiducia.
Baricco chiede che per rispondere all’emergenza sanitaria il medico lavori con a fianco un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo, financo un clown. Ho esteso sopra il ragionamento ad ogni ufficio e unità di missione della Pubblica Amministrazione centrale e locale. Perché questa capacità di governo ci servirà sempre, non solo in tempi di malattia, essendo essa stessa parte della cura.
Ma è ‘adesso’, mentre ogni giorno contiamo i morti e abbiamo fiducia che il peggio sia alle spalle, che dobbiamo fare lo stesso lavoro di commistione a monte, mettendo a produrre insieme i produttori di senso (gli intellettuali), i produttori di valore (imprenditori e lavoratori) e i produttori di regole (i politici), per ripensare alla radice il mondo che (non) ci aspetta.

Il ‘dopo’ non sarà un appuntamento su invito.

Chi c’è in ascolto?

 

 

 

 

 

Con alcune persone ho condiviso negli anni molte delle riflessioni riportate qui. Da loro, a mia volta, sono stato profondamente influenzato quando si parla di Stato e Pubblica Amministrazione. Voglio citarne due su tutti: Fabrizio Barca, Annibale d’Elia.
Prima di chiudere questo articolo, ne ho fatta avere un’anteprima ad alcuni politici, intellettuali e altri inclassificabili (saranno loro i clown?) che ammiro.
Sono loro – alcuni citati anche nel testo – in ordine alfabetico e senza forzata attribuzione ad una sola delle tre categorie: Antonio Aloisi, Ana Victoria Arruabarrena, Davide Agazzi, Emanuele Bevilacqua, Luca Bolognini, Francesca Cavallo, Paolo Coppola, Roberto Covolo, Luca De Angelis, Linda Di Pietro, Lorenzo Marsili, Lorenzo Micheli, Stefano Quintarelli, Giuseppe Ragusa, Daniele Rielli, Agostino Riitano, Massimiliano Tarantino, Marco Trombetti, Alessandro Valera.
Li ringrazio per la pazienza con cui sono arrivati fino all’ultima riga e per i pensieri sulla prima bozza che hanno voluto condividere. Alcuni paragrafi sono comparsi solo dopo, con l’ultima rilettura, ma so che non li vivranno come un tradimento.
Ogni eccessiva divagazione o errore nei ragionamenti resta chiaramente solo colpa mia.

 

* deputato della Repubblica

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]