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lunedì, Ott 19

Mi chiamo Francesco Totti, perché non dovreste perdervi questo documentario



Da Wired.it :

Un documentario che non racconta di nuovo la solita storia, ma rifonda da zero tutta una la mitologia di una star del calcio

Ci sono una serie di cose che sappiamo, o pensiamo di sapere, su Francesco Totti. Le sappiamo dalla televisione, dalle pubblicità, dalle interviste, dal matrimonio mandato in diretta da Sky e dalle foto sui giornali. A partire dagli anni ‘90 è stato il calciatore italiano più noto, più fotografato quando si era messo insieme con Ilary Blasi formando la coppia velina + calciatore più emblematica dopo Christian Vieri e Elisabetta Canalis. Era il più cercato dalla televisione e anche il più preso in giro, simbolo di ignoranza e ricchezza e ovviamente simbolo di romanità indolente, pigra e un po’ vittimista. Venti anni di vita mediatica hanno creato questo simulacro di Francesco Totti, gli hanno appiccicato questa immagine.

Due ore del documentario Mi chiamo Francesco Totti (dal 19 al 21 ottobre al cinema) la fanno a pezzi. Tramite una serie di immagini che in linea di massima conosciamo, abbiamo visto o comunque non sono considerabili inedite se non per qualche video familiare, Totti non è solo riraccontato da capo (che è quello che avrebbe potuto fare un qualsiasi buono special televisivo), ma è proprio la sua mitologia a essere rifondata. E questo avviene senza nuove indiscrezioni, nuovi dietro le quinte o notizie clamorose ma rileggendo da capo le solite immagini, montandole in maniera diversa e lavorando con lo stesso Francesco Totti per spiegarle.

Si parte dall’infanzia e si arriva all’addio al calcio. La storia è quella di come Francesco Totti sia diventato un calciatore professionista, come abbia vissuto il professionismo e quanto sia rimasto attaccato alla Roma, fino a quel clamoroso addio che è sembrato uno psicodramma comunale. In ogni momento siamo accompagnati dalla voce di Totti che non è mai presente in video, solo in audio. Mostra dove stavano nelle immagini al mare in cui a due anni calcia un pallone, crea un contesto, precisa chi sono le altre persone con lui in foto, e si lascia andare a commenti come se stessimo sfogliando l’album di famiglia (“Tiè, guarda qui quant’era giovane mamma…”, “…e guarda come s’era vestito!”, detto di Cassano guardando la sua presentazione al Real Madrid).

Alex Infascelli ha creato un racconto pazzesco intorno a qualcuno che non ha niente di clamoroso nella propria vita. Chi racconta Maradona non può sfuggire alla parabola dell’eroe popolare contro i baroni del calcio, alla caduta, al binomio con il crimine e la droga. È una mitologia troppo potente (e reale). Con Totti non c’è niente di tutto ciò, Infascelli scrive da zero una mitologia a partire dalle immagini. Quando nei primi appuntamenti va con Ilary al circo, quando stanno a tavola in un ristorante qualsiasi con gli amici, quando festeggia un compleanno ballando il Gioca Jouer con pochi amici o anche quando va in vacanza in barca dopo lo scudetto con gli amici a cui è legato dalle elementari. Ogni cosa suona diversa, come dice lui stesso: “All’epoca c’erano un sacco di calciatori che si mettevano con le veline, era una moda, ma per me lei era la donna della mia vita”.

Quell’immagine che conoscevamo era fallace, lo scopriamo oggi, e scopriamo quanto Ilary sia stata la testa del duo, sempre a fuoco, sempre presente con consigli cruciali nei momenti importanti, sempre citata da lui come si cita un mentore. Ma lo stesso avviene per alcuni momenti sportivi. Quando Totti rilegge la sua carriera mostra e rimostra i video di lui da piccolo sul campo (“Ecco, lo vedi lì, prima di ricevere la palla guardo per un attimo dove stanno i compagni e l’avversario. Un altro ragazzino mica lo fa”), o per raccontare di aver capito tardi che lui ha sempre giocato nella stessa identica maniera, dai 12 ai 40 anni (e le giocate identiche affiancate fanno impressione). Non un ragazzino che gioca come un adulto, ma un campione che gioca come un ragazzino.

E anche gli stereotipi vengono riletti. Da sempre dipinto come un monumento di Roma, Totti stesso a un certo punto lo ribadisce, ma non nel senso che intendono gli altri. Si sente un monumento di Roma perché lo guardano, lo fermano, gli fanno le foto e non c’è modo che possa passare inosservato: “Ma io dico: ce sarà mai un giorno nella vita mia in cui nessuno me ferma e non firmo manco n’autografo? Prima che moro una volta potrò mai uscire senza che nessuno me dice niente? Secondo me no…”. Mi chiamo Francesco Totti non è un santino, anche se indubbiamente è una celebrazione di una personalità fuori dal comune, è la dimostrazione che anche nel più clamoroso dei giocatori albergano sensazioni e sentimenti così semplici da essere immediatamente riconoscibili come uguali ai nostri. È paradossalmente il nostro specchio.

Le scorrettezze, gli sputi e i calci pure sono raccontati, come è raccontata l’ultima partita dello scudetto e la furia di essere pronto per il mondiale, gli allenamenti senza senso per riprendere la forma. Ogni cosa, messa in contesto, mostrata assieme ad altri video assume un valore completamente differente, quello del più sempliciotto tra gli esseri umani, pronto ad accontentarsi di pochissimo nella vita, restio ai cambiamenti e desideroso di quiete e normalità, che fa solo cose eccezionali. Impossibile non commuoversi di fronte a un’evidente semplicità d’animo. Impossibile non avere voglia di ripensare tutto quando a documentario quasi finito Mi chiamo Francesco Totti ci fa rileggere anche le stesse immagini che ci ha proposto, per farci notare che nonostante non l’avessimo mai visto per tutto il tempo dietro il protagonista, in ogni video, c’era sempre qualcun altro, la sua ombra che lo segue ovunque. Non avevamo capito niente, non le sapevamo proprio guardare quelle immagini.

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[Fonte Wired.it]