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venerdì, Mag 07

Monster, come la società la giustizia americana non è uguale per tutti



Da Wired.it :

Oltre alla polizia violenta, gli Stati Uniti hanno un altro problema da risolvere: un sistema giudiziario che non funziona e che riempie le carcere di giovani afroamericani. Come racconta questo nuovo film in streaming su Netflix

Quella del 17enne protagonista di Monster, il film in streaming dal 7 maggio su Netflix, sembra una storia vera. Inganno comprensibile per il modo in cui la storia è girata e raccontata, dalla prospettiva del ragazzo, e anche per il fatto che vicende come questa, di minori, neri, che finiscono in carcere per crimini che (forse) non hanno commesso, la giustizia americana ne produce a ciclo continuo. In realtà, però, il film si basa su uno dei libri di maggior successo di Walter Dean Myers, pluri-premiato scrittore di libri per l’infanzia americano, morto nel 2014.

Steve Harmon (Harrison, Jr.) è un ragazzo di Harlem. Studia in una prestigiosa scuola pubblica di New York, e insegue il sogno di diventare un film-maker, obiettivo per nulla irrealizzabile, visto che il suo insegnante (Tim Blake Nelson) lo considera uno studente brillante, dotato di molto talento. La sua è una famiglia piccolo-borghese, molto per bene: il padre (Jeffrey Wright) è un grafico pubblicitario, la madre (Jennifer Hudson) si prende cura di lui e del suo fratellino minore, spronandolo a studiare e a stare alla larga dalle cattive compagnie. Consiglio che il ragazzo, purtroppo, non tiene abbastanza da conto. Non perché sia interessato a fare parte di una gang, a commettere crimini o a drogarsi. Steve sembra davvero il classico ragazzo con la testa a posto, ma nel campo da basket del parco sotto casa, ci sono ragazzi troppo affascinanti da fotografare e filmare per poter resistere.

Il film si apre con le riprese della camera di video sorveglianza di una bodega, uno di quei classici negozietti newyorchesi dove si vende un po’ di tutto: si vede una rapina in pieno giorno che finisce in colluttazione quando il proprietario, un ispanico, cerca di difendere se stesso e l’incasso del giorno dai due giovani delinquenti che lo minacciano. L’uomo impugna la pistola che tiene sotto il banco ma, nel corpo a corpo, parte un colpo che gli trafigge un polmone e ne causa la morte.

La storia inizia con Steve già in carcere, con l’accusa di aver fatto da palo. Sarebbe entrato per controllare che non ci fossero poliziotti all’interno del negozio e segnalato ai due complici il via libera. In questo modo sarebbe indirettamente colpevole di omicidio e rischia vent’anni di carcere. E, siccome è giovane, nero e vive ad Harlem, questo basta – come gli dice la sua avvocata d’ufficio (Jennifer Ehle)– a far sì che la giuria lo consideri colpevole prima ancora che il processo cominci. Anzi un mostro, come lo definisce la pubblica accusa nell’arringa iniziale.

Il film alterna scene del carcere, i vari momenti del processo, e molti flashback: la vita del ragazzo in famiglia, a scuola, e i suoi incontri con i responsabili della rapina, “non amici, al massimo conoscenti”, che Steve riprende con la telecamera sperando di trovare lo spunto per una buona storia. Pezzi di un ritratto che non ci spiegano fino in fondo chi sia davvero questo ragazzo. È lo studente modello che vediamo nei banchi? Ha avuto un ruolo nella rapina? Per quale ragione avrebbe partecipato? È stato intimidito da un membro della gang? Oppure aveva già commesso altri reati? In fondo, dice lui stesso, a un certo punto della storia, “a quell’età, in quel mondo, ti può capitare di infrangere la legge numerose volte in un solo giorno“.

Monster è il debutto alla regia di Anthony Mandler (che ha lunga e illustre carriera come regista di clip musicali) e il film è stato prodotto dalla compagnia di John Legend. Il perché non è difficile da capire visto il cantante da tempo si è schierato per una riforma del sistema giudiziario in America: “Sono stato spesso nelle carceri e ho visto molti ragazzi vittime di questo sistema”, ha detto,  “vogliamo che l’America sia un Paese con le prigioni piene di giovani oppure vogliamo investire sulle nuove generazioni?“.

Il modo in cui Monster è raccontato e girato, come se la regia e il montaggio del film fossero nelle mani dello stesso protagonista, è interessante, oltre che avere una sua logica interna visto che il ragazzo è anche un aspirante film-maker. E anche dal punto di vista dei contenuti, va evidenziato come il film abbia il merito di raccontare l’altra faccia del movimento Black Lives Matter, ovvero il problema delle carceri, piene di giovani afroamericani, finiti dentro per via di una giustizia palesemente ingiusta.

L’unica obiezione e l’unico difetto del film, è l’eccesso di spiegazioni: non esiste una sola realtà, il racconto di ogni esperienza diverge a seconda di chi la racconta e così via, sono concetti fin troppo martellati. Segnale di una mancanza di fiducia nella comprensione del pubblico: dobbiamo dirlo e ridirlo altrimenti c’è il rischio che non capiscano. Che magari è vero se si ha in mente uno spettatore adolescente, ma l’effetto sugli adulti che quel genere di consapevolezza l’hanno raggiunta da tempo è un po’ fastidioso.

[SPOILER] Bello il finale che, invece, di dare una risposta definitiva, solleva nuovi dubbi e domande. Con l’ultimo tassello mancante del puzzle, i 93 passi che Steve percorre quel giorno e che che avrebbero potuto cambiare per sempre la sua vita. È quello che è veramente successo, o è solo la sua ultima versione dei fatti?

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[Fonte Wired.it]