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venerdì, Gen 07

Mother/Android, recensione del film Sci-fi con Chloë Moretz



Da Wired.it :

Il primo problema di Mother/Android, film originale di Hulu distribuito internazionalmente da Netflix dal 7 gennaio è il titolo: quel “/” dovrebbe essere un “Vs. Il dramma postacapolittico fantascientifico è il debutto dietro la macchina da presa di Mattson Tomlin, sceneggiatore di Black Mass a cui è stato appena affidato lo script dell’attesa serie anime di Production IG (lo studio di animazione di Ghost tin the Shell) ispirata a Terminator. Tomlin ha scritto anche la storia di Mother/Android, l’odissea di Georgia (Chloë Grace Moretz, Kickass) e Sam (Algee Smith, Euphoria), in fuga da un mondo nel quale i robot si sono ribellati all’uomo. In quest’ucronia distopica soft sci-fi mutuata apertamente la maggior parte delle sue idee dai Robot universali di Rossum di Karel Čapek e da Gli androidi sognano pecore elettriche? Philip K Dick, un’azienda americana ha sviluppato, alla fine degli anni ’60, la tecnologia per creare maggiordomi artificiali. 

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Mezzo secolo dopo, l’Occidente si lascia servire da questi docili schiavi robot mentre i paesi comunisti come Cina e Corea (una Corea unita sotto il socialismo) non hanno accesso – o lo rifiutano – allo sfruttamento di queste creature. La vigilia di Natale (negli Usa il film è uscito il 21 dicembre) Georgia scopre di essere incinta: poco dopo lo Skynet del caso dà inizio alla ribellione delle macchine e gli androidi cominciano a sterminare chiunque capiti loro a tiro. Nove mesi dopo, la coppia si avventura tra i boschi infestati di robot per raggiungere Boston da dove partirà una nave coreana che traghetta verso sponde sicure dell’Asia le famiglie provviste di bambini di età inferiore all’anno di vita. 

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Gli androidi di Mother/Android hanno preso ispirazione dall’opera teatrale di Capek e hanno reso realtà quella storia. Sono replicanti dickiani: come nel romanzo che ispirò Blade Runner, sono creature artificiali infide e crudeli. Mother/Android non è, come potrebbe suggerire il titolo, una parabola in stile I Am Mother che ipotizza scenari possibili di maternità robotica, bensì una sorta di The Walking Dead nella quale gli esseri cibernetici che si stanno sostituendo all’uomo sono il pretesto per una critica sociale dell’umanità, abbrutita dalla fine della civiltà. Non solo, fanno da propulsione alla ricerca della propria identità che in questo caso è il romanzo di formazione di Georgia. Il cast è sprecato, la Moretz in modalità mamma leonessa è credibile e ispirata, Smith in quello del compagno protettivo lo è altrettanto. 

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L’introduzione del personaggio di Raúl Castillo (Looking), che interpreta il survivalista paranoico e solitario Arthur, dà finalmente inizio a una seconda parte più immersa nella materia fantascientifica, con una cifra horror, specialmente nel finale che omaggia Terminator, più entusiasmante per gli amanti del cinema di genere rispetto all’andamento precedente del film. Mother/Android vuole essere un dramma familiare e una love story (e uno sfogo autobiografico catartico del regista) più che un film di fantascienza, e qui fallisce. Le intenzione dell’autore no sono chiare all’inizio e non bastano un paio di sequenze tese nelle quale i teschi scarnificati dei robot assaltano la cinepresa a rendere meritevole la visione. È un peccato, perché la storia di George e Sam, che dovrebbe essere toccante e strappalacrime, e le loro peripezie survivaliste non generano abbastanza empatia e coinvolgimento per supplire alla latitanza di brividi horror e istanze fantascientifiche.

Tomlin si lascia prendere dal sentimentalismo autobiografico (l’ossessione di Sam di dimostrarsi un partner degno, il dramma della separazione da Forest); non volendo decidere su quale elemento puntare, non soddisfa alcuna delle aspettative del pubblico. L’autore stesso sembra non riuscire a comprendere quale messaggio vuole veicolare. Più robot assassini e meno paturnie fataliste avrebbero reso il film più che godibile; invece, Mother/Android allunga ai suoi spettatori un pacco di natale che una volta aperto rivela di contenere solo uno sconfortante, stoico disfattismo.



[Fonte Wired.it]