La prima parte segue le prime ore della reunion del quartetto: immersi in uno sfarzo cafone e asettico, circondati di vettovaglie bastanti per un reggimento (sono incuranti delle vite umane, figuriamoci degli sprechi alimentari), alternano insulti e offese con abbracci e complimenti. All’inizio sembrano solo stravaganti ricconi che controllano una buona fetta del mondo (e vogliono controllarne di più) e amano intraprendere conversazioni colte citando la storia romana – da Marcantonio a Ottaviano – e i grandi filosofi – da Kant a Platone a Nietzsche; man mano si rivelano mostri che cercano di giustificare i loro deliri di onnipotenza travisando la storia e la filosofia. Sorge fortemente il dubbio che i loro analoghi, nella realtà, sarebbero in grado di ideare scambi verbali così brillanti, dotti e spiritosi, ma ad Armstrong interessa mantenere l’attenzione del pubblico, per mostrargli il vuoto cosmico morale dei mostri di avidità che hanno in mano il destino del mondo, e lo governano senza alcun senso di responsabilità.
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Il loro sistematico rifiuto di ogni responsabilità e del rispetto del prossimo è disgustoso, ma più oscena è la loro arroganza nel credere che spetti a loro decidere le sorti del pianeta e ancor più raccapriccianti sono i loro tentativi di monetizzare la fine del mondo che loro stessi hanno provocato. Nella prima parte del film a dominare sono i dialoghi che esplicano quanto sopra, con i protagonisti che si prestano a una satira verbosa e intensa, da camera, intrisa di humour nero. Nella seconda metà, la decisione di eliminare fisicamente uno dei membri della cerchia trasforma la commedia nera in una farsa, una pantomima che rivela la stupidità, la pavidità e l’inettitudine di ometti che non riuscirebbero a sopravvivere là fuori, nel mondo vero, per più di qualche ora. Mountainhead si chiude su una nota finale agghiacciante e sibillina, lasciando una sola certezza: questi sono i padroni del mondo, e sono davvero così.