In principio fu Elon Musk. Il magnate di Tesla e Space X, oggi gran protagonista della politica tecnocratica statunitense alla corte di Donald Trump, è noto per molte cose, fra cui una certa predilezione alla riproduzione in serie (e in vitro). Genitore per almeno 14 volte, fra eredi dichiarati e no, è fautore in prima persona di una politica di moltiplicazione genetica che è ormai molto più di una tesi o un’idea complottistica. È una (inquietante) realtà.
Il servizio andato in onda a marzo nel corso del programma televisivo di Raitre In Mezz’ora (ma ne aveva parlato anche Il Manifesto qui) non ha lasciato spazio ai dubbi, solo a un enorme sensazione di vuoto e smarrimento. La collega giornalista Laura Cappon è infatti volata negli States – senza farsi neppure arrestare, chapeau! – per intervistare Simone e Malcolm Collins, una coppia (nel lavoro e nella vita) di ex imprenditori della Silicon Valley, oggi a capo dell’organizzazione Pronatalist.org, movimento pronatalista che si è auto-investito del compito di combattere il crollo demografico degli Usa attraverso una politica di genitorialità a tempo pieno e, soprattutto, controllata (leggi anche “selezionata”). “Quando ero giovane il mio obiettivo era fare carriera nel mondo delle startup, rimanendo single. Adesso lotto per una causa opposta, e sono certa che la me bambina ne sarebbe confusa”, racconta Simone Colline davanti alla telecamera, con una neonata – l’ultima di quattro figli, ma “ultima” solo per il momento – appollaiata sulla schiena.
La causa a cui si riferisce Simone è, senza giri di parole, ripopolare la Terra – e in particolare la patria – di geni, dove geni sta sia per porzioni biologiche di Dna ma anche per menti eccelse, superiori. “Dobbiamo creare una cultura dove si possa tornare ad avere un tasso alto di fertilità”, sostiene Simone. E fin qui non ci sarebbe nulla da obiettare, se non fosse che a essere incoraggiate sono soprattutto (solo?) le nascite di uno specifico gruppo etnico e “nazionale”, e che la prole viene confezionata letteralmente “su misura”.
Simone si sottopone a trattamenti di fecondazione in vitro ciclici, pianificando gravidanze in modo sistematico. Resta incinta per 9 mesi, riposa altri 9 e poi resta incinta di nuovo, “in modo aggressivo ma non pericoloso”, dice. Con buona pace anche dei conigli di De Gregori. Nel caso dei Collins, la fecondazione assistita non si rende necessaria per questioni di fertilità, ma perché permette loro di effettuare un test preimpianto sull’embrione, in base al quale a quest’ultimo viene assegnato un punteggio su base genetica, che – a loro dire – tiene conto anche del quoziente intellettivo del futuro nascituro, oltre che di alcune caratteristiche legate alla sua (ipotetica) salute, che vanno dalla predisposizione a tumori e/o Alzheimer, fino allo sviluppo di disturbi mentali e/o della personalità come ansia, schizofrenia, stress e “semplice” impulsività. Tutto ciò si rende possibile perché negli Stati Uniti lo screening genetico non è regolamentato rigidamente come in Europa (in caso di PMA “convenzionale” è possibile anche scegliere il sesso del nascituro) e ci sono aziende che testano gli embrioni per identificare la presenza di patologie genetiche o anomalie cromosomiche in fasi anche molto precoci dello sviluppo.
A cosa mira il movimento pronatalista negli Stati Uniti?
Nel caso di questi gruppi di pronatalisti “tech” – ribattezzati anche “hipster dell’eugenetica” – l’obiettivo è di andare a creare una discendenza forte ed evidentemente “progredita”, fatta di persone altamente istruite e con caratteristiche considerate “desiderabili”, sia dal punto di vista evolutivo che sociale. Possibilmente di pelle bianca. Nella storia non è purtroppo la prima volta che se ne parla, ma i precedenti esperimenti, in tal senso, sarebbe decisamente meglio non prenderli a esempio.