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martedì, Set 24

Nascita di un whistleblower: quanto Snowden c’è nel libro di Snowden


In “Errore di sistema” (Longanesi) l’uomo del caso Nsa continua a non indugiare sul personale, concentrandosi sulle sue concezioni di cittadinanza e internet

snowden

Ho parlato con Edward Snowden due volte, in occasione di due interviste a quattro anni di distanza l’una dall’altra. La prima, nel 2015, la seconda lo scorso maggio, sempre al Wired Next Fest. Intervistare Snowden quattro anni fa significava andare a toccare un nervo scoperto: le rivelazioni sulla sorveglianza di massa proveniente dai suoi documenti continuavano a essere pubblicate e si era ancora – pur a due anni di distanza dall’inizio del caso Nsa – nel mezzo di una tempesta che stava iniziando a far vedere i suoi effetti. Nel maggio del 2015, ad esempio, un tribunale statunitense aveva dichiarato illegali le pratiche di sorveglianza telefoniche della Nsa sul territorio Usa; l’accordo su cui si basava il trattamento dei dati dei cittadini europei negli Stati Uniti sarebbe stato cancellato dalla Corte europea di giustizia in ottobre; poco prima Wired Usa aveva pubblicato una (allora) rara e lunga intervista con Snowden, in cui era emerso il ruolo diretto della Nsa nel mettere offline per errore la Siria durante le proteste anti-Assad.

Nel 2019 viviamo in un mondo diverso e, in parte, lo si deve anche a quella tempesta. Il dibattito attorno alla privacy è diventato maturo: la Ue si è dotata del Gdpr; le grandi aziende della Silicon Valley – con livelli differenti di ipocrisia – hanno cambiato le loro attitudini nei confronti del tema; il tema della crittografia e il suo ruolo sociale è tornato in auge come non accadeva dai tempi delle cryptowars dei primi anni Novanta. E, complessivamente, temi tecnologici che prima sarebbero rimasti solo materia da addetti ai lavori sono ora al centro di diverse agende, a cominciare da quella della politica e, almeno nelle democrazie più mature, anche in quella del pubblico. Certo, la sorveglianza di massa e le iniziative dei governi di varia natura – dal Regno Unito alla Germania, fino all’Italia – non è stata sconfitta ma vive al contrario un momento di splendore, complice vari panici morali e la tendenza, anche nelle patrie del progresso, a trattare i temi digitali con spinte autocratiche. Ma, di nuovo, viviamo in un mondo che è post-Snowden per diversi motivi.

Parlare con Snowden ha sempre significato parlare di queste cose e dei temi connessi alle sue rivelazioni. Sin dall’intervista che lo ha reso un personaggio pubblico nel 2013, Snowden ha imposto di non essere la notizia e ha voluto essere solo una voce per le sue istanze. Si è concesso pochissimo sul piano personale, lasciando trasparire pochi dettagli sulla sua esperienza, il suo sistema di pensiero, la sua cultura, il suo stato d’animo (spesso esponendosi ad aspre critiche da parte di chi, in questa scelta, ha visto motivi di dubbio sulla sua sincerità). Parlare con Snowden ha sempre significato, anche per me, nell’arco dei cinque anni che hanno separato le mie due interviste, entrare in un territorio di pura razionalità, quiete, divulgazione e generosità nell’esprimerla. Tutto, però, concesso solo nella direzione dei contenuti, mai del messaggero.

Sei anni dopo l’inizio della sua storia di whistleblower, Snowden si è finalmente dato una voce anche in un territorio più umano e personale con un libro-memoir, Permanent record – tradotto in Italiano come Errore di sistema da Longanesi. Il libro non aggiunge quasi nulla a quanto si è già appreso attorno ai temi di Snowden: non ci sono cose che non fossero già emerse in passato e l’autore non dice niente di nuovo rispetto a quello che è già finito on the record grazie alle inchieste dei giornalisti e alle interviste. Questo è in parte un’occasione persa, in quanto Snowden ha dimostrato in passato grande capacità di divulgazione di questioni tecniche e specifiche sulle tecniche di sorveglianza, molte delle quali sono diventate temi pubblici proprio grazie a lui. Errore di sistema, però, va in un’altra direzione.

Chi non conosce Snowden o la sua storia ci troverà diversi dettagli interessanti; chi conosce già entrambe le cose e ha amato detestarle, invece, continuerà a farlo. A ogni lettore, però, qui Snowden fornisce una chiave di lettura, per quanto molto biografica, sulla maturazione della sua scelta di diventare whistleblower: ci sono passaggi sì più intellettuali, in cui l’autore sviscera il concetto di whistleblowing come un principio eminentemente americano e costituzionale. Altre, dove Snowden mette – finalmente – nero su bianco la sua concezione della privacy come elemento strutturante della nostra cittadinanza, della nostra inviolabilità come esseri umani e del perimetro di azione del potere statale nei nostri confronti.

Le pagine più interessanti sono forse però quelle in cui Snowden parla della sua formazione come cittadino di internet e hacker, ponendo nell’ascesa del capitalismo della sorveglianza la fine di una certa idea di internet come terreno delle libertà, privacy, e autodeterminazione. In quelle pagine Snowden è pienamente generazionale: il whistleblower è del 1983 e ha vissuto dentro due reti: una dove la privacy non era una moneta di scambio e una dove, invece, è una miniera d’oro e un parco giochi per i governi. La spinta in favore della privacy che Snowden invoca è anche una battaglia culturale per una internet diversa, che non sia più una zona di guerra da cui fuggire o una distopia in potenza.

In Errore di sistema trovano molto spazio anche due donne cruciali per la storia di Snowden, rimaste fin qui un po’ in ombra. La prima è Lindsay Mills, la compagna del whistleblower, presente nel libro anche con alcune sue pagine di diario che raccontano i giorni concitati della scomparsa di Snowden, partito per incontrare i giornalisti a Hong Kong. Mills ha raggiunto il compagno a Mosca da qualche anno. Sarah Harrison è invece la giornalista di WikiLeaks che accompagnò Snowden nel suo viaggio da Hong Kong verso l’Ecuador, conclusosi però in Russia per via della contemporanea cancellazione del suo passaporto. Harrison ha trascorso con Snowden un mese nell’area internazionale dell’aeroporto di Mosca, fino a quando al whistleblower venne concesso un permesso di residenza nel paese, dove tutt’ora vive, vistosi rifiutare una ventina di richieste di asilo da parte di altrettanti paesi democratici. E senza poterlo lasciare.

Ancora una volta, anche con questo libro, è Snowden a diventare il gatekeeper di se stesso, concedendo qualcosa in più su di sé, ma sempre con l’intento prioritario di fornire ancora e solo elementi utili a veicolare il suo messaggio. In un certo senso, anche dopo questo memoir, la persona Snowden ha scelto di nuovo di non essere la storia. La sensazione è che anche la sua biografia personale trovi posto e senso principalmente nella concezione di internet del suo autore, prima che nell’idea che lui possa avere per il suo futuro personale. Sei anni dopo, sembra comunque ancora la posizione più coerente da parte di qualcuno che ha sempre rifiutato per primo ogni categoria di facile eroismo, definendosi come un cittadino o una persona comune in circostanze straordinarie.

 

 

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