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giovedì, Giu 18

Nel mondo ci sono ancora 40mila lavoratori bloccati sulle navi da crociera



Da Wired.it :

A epidemia (spesso) già terminata, buona parte delle maestranze dei gruppi crocieristici è ancora senza paga e costretta a stare in cabine anguste, mentre i passeggeri sono già sbarcati da mesi

Dopo 80 giorni in mare, tre trasferimenti da una nave all’altra, quattro voli cancellati e un malfunzionamento a bordo, Bruno Cruells, il direttore musicale della compagnia Royal Caribbean, ha finalmente toccato terra nella sua Argentina il 3 giugno, accompagnato da altri 251 compatrioti. “Mi sono sentito finalmente al sicuro, in qualche modo“, ha detto Cruells ai cronisti. Per migliaia di altri suoi colleghi impiegati sulle navi da crociera, si tratta invece di aspettare ancora, dopo oltre tre mesi di isolamento del mondo.

È una storia surreale quella raccontata dal quotidiano Miami Herald, che ha dettagliato la situazione in cui si trova la manovalanza delle navi da crociera rimasta in mare mentre l’Occidente sta pian piano ritornando alla normalità. Il giornale parla di ben 42mila membri dell’equipaggio delle grandi navi che, dopo aver fatto sbarcare gli ultimi passeggeri nelle settimane successive all’inizio della pandemia, sono stati in buona parte dimenticati. Spesso senza paga, costretti a stare in anguste cabine e con il rischio di essere infettati a bordo.

I ritardi nel processo di rimpatrio degli equipaggi hanno sottolineato la relazione complessa tra il settore delle crociere, i paesi maggiormente visitati da queste navi e la legislazione internazionale, colta di sorpresa dal virus. Se le compagnie hanno giurato di aver fatto il possibile per riportare a casa i loro lavoratori e di essere state limitate dalle chiusure delle frontiere in molti paesi del mondo, diverse testimonianze raccolte dall’Herald sembrano mostrare parecchie dimenticanze, superficialità e disinteresse per queste maestranze.

Già agli esordi del Covid-19, a febbraio e marzo, le navi da crociera si sono mostrate come uno dei principali diffusori della malattia (ricorderete tutti il caso della Diamond Princess, ormeggiata nel porto di Yokohama in Giappone), data la promiscuità e gli spazi al chiuso con cui vivono i passeggeri. Eppure a marzo, le società di crociere pensavano che la crisi sarebbe finita in poche settimane, e la priorità è stata data ai passeggeri; solo Msc crociere si è preoccupata di rimpatriare oltre il 70 per cento del suo equipaggio, mentre le altre compagnie la percentuale era molto al di sotto del 50 per cento.

Ancora agli inizi di maggio si segnalavano oltre 100mila persone bloccate sulle navi su cui stavano lavorando, senza possibilità di attraccare. Tuttavia lo scenario non sembrava così catastrofico. In qualche caso i datori di lavoro avevano persino concesso l’uso di camere, piscine, servizi ricreativi normalmente riservati ai clienti. E c’erano testimonianze di un’atmosfera persino goliardica e rilassata.

Quando la pratica del lockdown si è diffusa in Europa e negli Stati Uniti, però, i rimpatri sono diventati molto più complicati e costosi. A quel punto in molti casi gli stipendi hanno smesso di arrivare. Come se non bastasse, il coronavirus si è rivelato particolarmente contagioso, e il suo diffondersi a bordo ha costretto il personale a rimanere in isolamento in cabine individuali, solitamente senza finestre e senza bagno. In molti casi, le navi da crociera sono rimaste ormeggiate dove si trovavano o hanno continuato a navigare, rientrando in porto solo per ricevere cibo scadente e carburante. A chi chiedeva informazioni su quando sarebbe stato permesso il rimpatrio, le società rispondevano con vaghezza o disinteresse. Alcuni ritorni a casa sono stati annunciati e poi cancellati, e i lavoratori spostati da una nave all’altra senza sapere quando l’incubo sarebbe finito.

Ancora oggi il destino di questi lavoratori è incerto, in quanto molti dei loro paesi d’origine in America latina e in Nord America sono ancora nella fase di picco dei contagi. A metà maggio, un gruppo di lavoratori rumeni della Navigator of the Seas, una nave da crociera della Royal Caribbean, hanno iniziato uno sciopero della fame e sono stati rimpatriati. Ma il problema è che i Caraibi continuano a vedere le navi da crociera come da cavalli di Troia, capaci di importare focolai di Covid: a Trinidad e Tobago il personale sbarcato dalle navi ha rappresentato la metà dei contagi.

Dopo la sospensione di tutti i percorsi crocieristici il 13 marzo, infatti, i paesi caraibici hanno allontanato le navi con presenza di coronavirus a bordo, proprio nel momento in cui queste avevano un disperato bisogno di far sbarcare i passeggeri e impedire un moltiplicarsi dei contagi sulle navi. All’inizio della pandemia le Bahamas – che offrono la loro bandiera per molte navi di questo tipo – hanno respinto le richieste di accogliere i passeggeri e l’equipaggio bloccati sulle navi, citando la mancanza di risorse finanziarie per gestire un’eventuale focolaio.

Determinare il vero rapporto finanziario tra le compagnie di crociera e le singole nazioni dei Caraibi è difficile: ogni paese negozia i propri accordi con le compagnie di crociere, e alcuni dettagli non sono accessibili al pubblico pubblico. Secondo la Florida Caribbean Cruise Association, il governo delle Bahamas ha raccolto 54,2 milioni di dollari dalle compagnie di crociera nel 2018, che si traduce in appena 18 dollari per passeggero. Inoltre, il governo di Nassau ha sostenuto di aver costruito infrastrutture per centinaia di milioni di dollari per sostenere il business delle crociere. I colossi privati, invece, rispondono di aver aiutato la ricostruzione nel paese dopo gli ultimi uragani.

Alfred Sears, avvocato ed ex parlamentare delle Bahamas, ha affermato che la pandemia di Covid-19 offre ai Caraibi l’opportunità di ripensare il loro rapporto con le compagnie di crociera e chiedere maggiori investimenti in cambio delle esenzioni fiscali di cui già godono. “Dovrebbe esserci una relazione più equilibrata”, ha detto.

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[Fonte Wired.it]