Seleziona una pagina
lunedì, Feb 22

Nel mondo post-Covid l’Europa dovrà fare i conti con l’immigrazione di ritorno



Da Wired.it :

Molti stanno tornando a casa, soprattutto nell’Europa dell’Est, invertendo una tendenza decennale: l’Unione Europea è pronta a una piccola deglobalizzazione in atto su scala continentale?

Poco più di due anni fa, secondo le stime dell’Onu, la Bulgaria era in balia del tracollo demografico: la sua popolazione sarebbe dovuta scendere da 7,2 milioni a 5,2 milioni entro il 2050, rendendola il paese che si riduce più velocemente al mondo. In questa poco invidiabile classifica, alle successive nove posizioni c’erano altri stati dell’Europa orientale. Ogni anno la città di Vratsa, un ex centro industriale caduto in malora, si riduceva di duemila abitanti. Nel nord-ovest del paese, la regione più povera dell’Unione Europea, i datori di lavoro dicevano che di lavoro non ce n’era e la gente era più propensa ad andarsene che a rimanere. Senza il barlume di investimenti pubblici e interventi strutturali, interi villaggi sembravano destinati all’estinzione nel giro di un decennio.

Uno dei fenomeni sui quali gli esperti si stanno arrovellando oggi è però in che misura, dall’inizio della pandemia di coronavirus, gli immigrati europei stanno tornando in massa nei paesi di origine. Ne ha parlato, tra gli altri, anche The Economist. I numeri sono impressionanti: si tratterebbe di oltre 500mila bulgari che negli ultimi 12 mesi hanno fatto le valigie per fare ritorno in patria; i rumeni sarebbero invece oltre un milione. Per paesi che hanno, rispettivamente, circa 19 e 7 milioni di abitanti non sono cifre da poco. E se solo una frazione di questi ritorni dovesse essere permanente, gli effetti – in termini di pressioni sociali, politiche e occupazionali – si faranno inevitabilmente sentire.

La crisi della pandemia ha messo fine a un decennio di crescita costante dei flussi di migranti in tutto il mondo, secondo i dati raccolti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Il calo annuale dei flussi verso i paesi ricchi varia dal 30 per cento fino al 70 o 80 per cento in quelli – come l’Australia e la Nuova Zelanda – che hanno chiuso quasi completamente le loro frontiere. Ma oltre a quelli che non si spostano ci sono, appunto, quelli che tornano: una massa umana che cambierà i livelli di consumo; che avrà bisogno di spazi da abitare, di servizi da utilizzare e, se deciderà di restare a lungo, di salari da conquistare.

Sta succedendo, sia pure in misura difficile da stimare, anche in Italia: i nostri conterranei fuggiti dall’estero durante la crisi sanitaria stanno già avendo un peso diretto e indiretto negli equilibri del paese. Salvando, ad esempio, diversi rentier dal tracollo, tramite il pagamento di affitti insperati. Oppure occupando case di famiglia rimaste inutilizzate per anni, e che avrebbero potuto essere messe a disposizione di altri. Una piccola deglobalizzazione in atto su scala continentale.

La libera circolazione degli esseri umani è uno dei più grandi successi dell’Ue, e resterà probabilmente molto utilizzata anche dopo l’epidemia. Se è vero, come segnala il pur dubbio Eurobarometro, che la popolarità delle istituzioni sovranazionali del continente è in leggera riprese dopo le prime, drammatiche settimane di epidemia. I partiti nazionalisti e populisti dei principali paesi dell’Unione, seppur ancora forti nei sondaggi, sembrano come bloccati nelle secche, incapaci di fornire una lettura alternativa a quella cautelativa della scienza medica mainstream. L’argomento dei confini ha sì perso salienza: ma solo perché il sistema di Schengen, di fatto, è stato sospeso brutalmente dagli stati-nazione per proteggere i propri abitanti dal contagio, non per una vittoria politica esplicita dei conservatori. Si può prevedere che al primo segnale i viaggiatori economici e del tempo libero prenderanno di nuovo d’assalto gli aeroporti, le autostrade e le ferrovie.

Ma il mercato comune dei lavoratori è un meccanismo controverso. È indubbio che in molti paesi, specialmente quelli dove fanno effetto le asimmetrie generate dall’Ue, venga interpretato unicamente come un diritto ad andarsene. Che, certo, è comprensibilmente prezioso laddove – pensiamo ai paesi dell’ex Patto di Varsavia – questo diritto non era stato disponibile o era limitato con durezza fino a trent’anni fa.

L’emigrazione all’interno dell’Ue ha tuttavia causato squilibri, soprattutto se ad andarsene sono gli più brillanti e i lavoratori specializzati. Il rinomato economista italiano Marcello De Cecco anticipava già vent’anni fa che le università pubbliche della Penisola avrebbero avuto bene pochi incentivi a investire nella formazione dei manager del futuro, se questi sarebbero poi finiti a lavorare tutti nelle multinazionali francesi o tedesche, data la prevalenza in Italia di piccole e medie imprese con stipendi più bassi.

Una notevole preoccupazione fu sollevata in Romania dopo l’adesione all’Ue nel 2007. Era stata prevista un’importante ondata di emigrazione, soprattutto tra i giovani professionisti altamente istruiti. Dopo l’accesso al mercato comune hanno iniziato a fare capolino sui giornali titoli come “4 mila medici hanno lasciato il paese negli ultimi due anni e quasi 5 mila altri sono pronti a lasciarlo”, oppure “l’esodo dei medici determinerà il collasso del sistema sanitario in meno di 10 anni“. Secondo una ricerca, il numero totale di medici negli ospedali rumeni è diminuito costantemente: da 20648 medici nel 2011 a 13521 medici nel 2014. Tra il 2007 e il 2013, ben 14mila medici hanno lasciato il loro lavoro nel sistema sanitario pubblico nazionale e hanno scelto di praticare all’estero.

Questo fenomeno ha generato non solo scompensi demografici che richiedono o politiche fiscali meno ortodosse a livello comunitario (chi pagherà la pensione e i servizi agli anziani rimasti?) oppure tentazioni nostalgiche verso la Cortina di ferro. Fa parte di questo quadro la trappola autoritaria nel quale è finita l’Europa contemporanea: i più progressisti e cosmopoliti emigrano oppure lavorano da casa, limitando al minimo la loro partecipazione alla comunità locale e creando invece network internazionali che hanno più in comune tra loro che tra queste persone e i loro vicini di casa. Allo stesso tempo però favoriscono, pur senza volerlo, il consolidamento di elettorati più reazionari e chiusi in patria: se tutti gli altri se ne vanno, chi fa campagna per le idee progressiste?

È vero che i vincoli esterni, di tipo economico e politico, vigenti in Europa hanno impedito, pur nell’ascesa dei nazional-populismi, regimi di tipo totalitario classico. Ma è probabile che con la libera circolazione i sognatori di un’Europa multietnica e integrata dovranno fare sempre più i conti, ai margini del centro, con uomini forti come l’ungherese Viktor Orbán e cattolici integralisti come quelli al governo in Polonia. Che saranno sempre più difficili da schiodare.

La questione degli immigrati di ritorno sta mettendo però di nuovo al centro del discorso questo scontro tra chi vuole comunità stabili, di radicati, che desiderano restare in equilibrio, e l’interesse individuale; di chi sa di avere a disposizione una vita sola per realizzare i propri sogni e le proprie velleità: parafrasando il filosofo Ivan Krastev, è più facile andare in Germania che far funzionare la Calabria come la Germania.

Con il ritorno degli emigrati dai paesi ricchi, i paesi che hanno fatto a lungo affidamento sulle rimesse dall’estero per rimpinguare le proprie casse potrebbero non solo subire trasformazioni economiche, ma anche vedere importanti trasformazioni culturali, con il ravvivarsi della partecipazione politica e l’apporto di nuove idee e di bisogni da parte di chi ha abitato per molto tempo altrove. Allo stesso tempo, i paesi abituati ad avere una maggiore densità di immigrazione, che hanno contato su un afflusso costante di nuovi arrivati per sostenere la crescita della forza lavoro, dare impulso al settore dell’istruzione e compensare il peso fiscale di una popolazione che invecchia, potrebbero subire uno shock inverso.

Secondo questa indagine, un milione e 300mila persone se ne sono andate dal Regno Unito tra il terzo trimestre del 2019 e lo stesso periodo del 2020 a causa delle conseguenze economiche del coronavirus e dei timori per la Brexit. Nel corso del 2020, Londra ha perso 700mila abitanti per colpa della pandemia. Questo evento potrebbe da un lato vedere placati i segmenti più sciovinisti dell’elettorato britannico, che chiedevano di rallentare gli arrivi e vedranno forse anche gli affitti in alcune zone calare; dall’altro, potrebbe tradursi nel venir meno di una generazione di cittadini che tradizionalmente votano per politiche interventiste in economia e liberali nella cultura, con tutto ciò che ne conseguirà.

Con molti paesi che stanno rafforzando i controlli alle frontiere, la migrazione nel 2021 sarà lontana dalla normalità potrebbe essere simile al 2020. È però di questi mesi anche la notizia che i Tory, beneficiari dell’astio delle fasce più anziane e provinciali di popolazione verso gli immigrati europei dell’est, stanno pianificando di concedere visti-lampo ai cittadini ribelli di Hong Kong. Forse perché considerati più disciplinati e integrabili degli altri.

La migrazione internazionale probabilmente riprenderà una volta che le frontiere saranno riaperte. Per il momento, si sta verificando a causa della pandemia anche l’aumento dei colletti grigi. Si tratta, secondo l’Economist, dei lavoratori del terziario che vivono e lavorano in un posto mentre tecnicamente sono impiegati e pagano le tasse in un altro: expat per scelta o per necessità, anche all’interno del proprio paese. Le agenzie delle tasse avranno sempre più interesse a localizzarli, e a metterli di fronte a una scelta logistica e esistenziale. Gli agenti tributari saranno una figura decisiva nel futuro, e forse, chissà, prenderanno anche la forma di un diabolico algoritmo sui social network.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]