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lunedì, Mar 15

Non serve essere tifosi per amare Speravo de morì prima, la serie su Francesco Totti



Da Wired.it :

Da un’idea che sarebbe stato molto semplice realizzare male è nata una serie che ha l’ambizione di mostrare come si possa fare una commedia senza imitazioni, e che va molto oltre il romanismo

Non capita quasi mai in Italia che si tenti l’impresa difficilissima di raccontare il presente in modo diretto: non per metafora, con storie di finzione che strizzano l’occhio a fatti attuali, ma proprio rappresentando la realtà di pochissimi anni prima. Speravo de morì prima è questo, la storia degli ultimi due anni di carriera di Francesco Totti raccontati con continui flashback al periodo precedente, e con tutte le persone che hanno orbitato intorno a lui (la famiglia, Antonio Cassano, Daniele De Rossi, la dirigenza della Roma, gli allenatori del club ma anche Marcello Lippi e via dicendo). Non sono persone viventi viste da giovani, ma più o meno all’età che hanno oggi.

Per riuscirci è stato scelto il registro che il cinema e la tv italiana padroneggiano meglio di tutti. C’è infatti un’idea eccezionale dietro Speravo de morì prima: farne una commedia. Ancora di più: farne una commedia che abbia esattamente l’umorismo di Francesco Totti. È un’idea di scrittura possibile perché c’è Stefano Bises a scrivere (e con lui Maurizio Careddu e Michele Astori) e perché c’è stato un progetto che ha trovato Pietro Castellitto per il ruolo principale. Lontanissimo da Francesco Totti nell’apparenza e nel fisico, eccezionalmente vicino nell’atteggiamento, nelle movenze e soprattutto nella capacità di canalizzare quell’umorismo a sottrarre romano. Quello che funziona con pochissime parole e pochissimi gesti. Spontaneo per chi lo possiede, complicatissimo se va recitato perché prevede un numero limitato di strumenti con cui fare tutto. E il risultato è esilarante.

In questo modo questa serie in 6 puntate da 40 minuti è subito distante dalla commedia che conosciamo: non ha niente a che vedere con le battute, le macchiette e le situazioni (che poi divertenti non sono quasi mai) del cinema e dalla tv più pigri. Speravo de morì prima fa quello che fa sempre la nuova serialità, apre nuovi territori e sperimenta linguaggi diversi dal solito. In particolare qui a impressionare sempre piacevolmente è la mescolanza di vero e finto, di apertamente inventato e palesemente reale. Ci sono momenti di fantasia, immagini e ricordi modificati, fantasie e sogni pure (Cassano è quasi sempre una proiezione di Totti, il suo lato arrogante) ma anche ambienti molto veri, la cronaca dei fatti riportati nelle minuzie, i retroscena e i racconti del libro Un capitano di Paolo Condò, con anche la partecipazione di veri giocatori nel ruolo di se stessi (è eccezionale come sono stati integrati Del Piero e Pirlo).

E nonostante possa sembrarlo a prima vista, Speravo de morì prima non è mai una storia della Roma, né dei romanisti, non è un’apologia di quella squadra, quel mondo e del suo protagonista, anzi è una storia in cui anche il punto di vista molto parziale di Totti stesso sugli eventi è mitigato dal fatto che lui è il centro della commedia, è il protagonista sciocco che quindi fa moltissimi errori, viene comicamente frustrato e accanto a un cuore immenso (il quarto episodio è incredibile per come riesce a lavorare di sentimento su una storia semplice, nota e per certi versi risaputa come quella dell’amore tra Ilary e Francesco) mostra tantissimi difetti, indecisioni e un’umanità contagiosa. Ovviamente è il protagonista e stiamo con lui, ma è un protagonista fallatissimo, capiamo le ragioni di tutti ma parteggiamo con lui come con un fratello. A prescindere.

La sua storia letta dalla serie è la storia del lasciare andare un mondo, l’addio al calcio per Totti è l’equivalente del cambiamento per chiunque, l’accettazione del vuoto che rimane. Se se ne dovesse fare la storia dell’elaborazione di un lutto bisognerebbe davvero cambiare pochissimo. Luca Ribuoli (il regista) fa un ottimo lavoro nel far scivolare costantemente questa realtà in un territorio quasi metafisico, in cui può accadere di tutto senza che venga meno la concretezza dei sentimenti in ballo e del sentire profondo del protagonista verso se stesso. Non mollare il calcio perché son gli altri che vogliono decidere come e quando, non mollare il calcio perché dopo non si sa cosa ci sia, non mollare il calcio per non ammettere la fine di tutto, non mollare per non cambiare punto e basta. La scrittura intelligentemente disegna un mondo intorno a Totti che somiglia a Totti, principalmente i genitori, anch’essi refrattari a cambiare qualsiasi cosa, e poi gli mette accanto l’opposto, quella montagna che è Ilary Blasi, interpretata da Greta Scarano con una minuzia e una capacità di dar corpo alla statura non della persona ma del ruolo che ha in questa storia anche con pochissime scene. Difficile non commuoversi.

E a fronte del fatto che questa storia romana diventa immediatamente una storia italiana (pregio che aveva anche il documentario Mi chiamo Francesco Totti), Speravo de morì prima tiene fede al suo titolo per tutta la durata, essendo sia ironico che esagerato. Continuamente la serie stacca sui quadretti dei tifosi e più si approccia all’ultimo episodio più aumenta una malinconia che nei momenti peggiori è lasciata alla musica ma nei migliori è rafforzata dal contributo di tutti: una persona al supermercato che si commuove, le radio che contrappuntano gli spostamenti in macchina, la gente per strada e via dicendo. Quando si concretizza lo psicodramma cittadino tutto quel che la serie ha costruito di umorismo e tenerezza nei passati episodi sorregge il senso mai scontato di una vita strana, piena di successi ma incredibilmente malinconica perché finisce presto, prestissimo, prima di tutte le altre e senza possibilità di appello.

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[Fonte Wired.it]