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giovedì, Gen 02

Non solo Stati Uniti: le altre elezioni del 2020


Un piccolo giro del mondo per scoprire chi altro voterà il prossimo anno, da Israele fino alla Macedonia del Nord, passando per l’Etiopia

Il voto più atteso e appassionante del 2020 sarà ovviamente quello statunitense, la cui lunghissima corsa comincerà a entrare nel vivo con le primarie del 3 febbraio in Iowa, lo stato che da tradizione inaugura il percorso per decidere chi sarà lo sfidante di Donald Trump a novembre.

Ma in giro per il mondo, il prossimo anno, ci saranno anche altre elezioni da seguire per capire il futuro di alcune aree importanti. Ne abbiamo scelte quattro: ecco un piccolo riassunto delle cose da sapere per arrivarci preparati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Lior Mizrahi/Getty Images)

Israele

Per la terza volta in meno di un anno, i cittadini di Israele si ritroveranno a dover eleggere un nuovo Parlamento. Lo scrutinio che si svolgerà il prossimo 2 marzo segue infatti quelli del 9 aprile e del 17 settembre scorso, convocato già quest’ultimo in anticipo.

Dopo le elezioni di aprile, infatti, il premier uscente e leader del partito conservatore Likud, Benyamin Netanyahu, non era riuscito a trovare una maggioranza parlamentare disposta a sostenere un suo nuovo governo, a causa principalmente delle divergenze con uno dei suoi ex alleati, il capo del piccolo partito di destra nazionalista Yisrael Beitenu, Avigdor Lieberman.

Il 30 maggio, quindi, la Knesset, il parlamento israeliano, aveva votato una legge per auto-sciogliersi, evitando in questo modo la possibilità che il presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, conferisse l’incarico di cercare una maggioranza al principale avversario di Netanyahu: l’ex generale dell’esercito Benny Gantz, capo della coalizione di partiti di centro Blu e Bianco.

Alle elezioni di settembre, Blu e Bianco ha ottenuto un seggio in più del Likud, ma anche stavolta né Netanyahu né Gantz sono riusciti a trovare una maggioranza per formare il governo. Anche le trattative per un governo di unità nazionale che riunisse Likud e Blu e Bianco non sono andate in porto entro la scadenza dei termini stabiliti da Rivlin, cioè la mezzanotte del 12 dicembre, nonostante le assicurazioni dei due leader di voler fare tutti gli sforzi per evitare un terzo voto che potrebbe portare a risultati simili (come confermano i sondaggi).

Uno dei principali punti di disaccordo tra le due forze è stato il ruolo di Netanyahu: una delle condizioni irrinunciabili poste da Gantz per raggiungere un accordo, infatti, era che l’attuale premier – investito negli ultimi anni da diversi scandali, e recentemente incriminato con accuse di frode e corruzione – fosse estromesso dalla guida del Likud.

Netanyahu, da parte sua, ha rifiutato di abbandonare le alleanze con gli altri partiti  nazionalisti e ultraortodossi, ha continuato a occupare la sua carica – che lo protegge dai processi grazie all’immunità – ed è riuscito a respingere i tentativi di sostituirlo dei suoi avversari nel partito, guidati da Gideon Sa’ar. Il 26 dicembre, Netanyahu ha vinto le primarie interne del partito con il 72,5 per cento, e ha detto di voler condurre il Likud a una grande vittoria alle elezioni di marzo, per continuare a “guidare lo Stato di Israele verso successi senza precedenti“.

Etiopia

Le elezioni previste per il prossimo maggio costituiscono una grande sfida per il primo ministro etiope Abiy Ahmed, in carica da aprile 2018 e fresco di consegna del premio Nobel per la pace, che gli è stato assegnato per i suoi sforzi per mettere fine al ventennale conflitto con l’Eritrea.

Il presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki (a sinistra) con il primo ministro etiope Abiy Ahmed (Foto: Wikipedia)

Abiy, deputato del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf: una coalizione di quattro partiti che ha governato il paese dall’inizio degli anni Novanta), è stato nominato nominato primo ministro in una fase delicata per l’Etiopia, scandita da oltre tre anni di proteste contro il governo e dalla guerra con l’Eritrea che durava, con fasi più o meno intense, dal 1998.

Fin dalle prime settimane del suo incarico, Abiy ha avviato un negoziato con il governo eritreo, che a portato, nel luglio 2018, alla firma di una “Dichiarazione congiunta di pace e amicizia con il presidente eritreo, Isaias Afwerki, che ha posto fine alla guerra e ristabilito le relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Abiy ha inoltre avviato una serie di riforme politiche ed economiche, tra cui un grande piano di privatizzazioni e la proposta di una revisione della Costituzione per attenuare il principio del federalismo etnico, fonte di molte tensioni negli ultimi decenni. I provvedimenti più importanti sono stati però la liberazione dal carcere di migliaia tra prigionieri politici e giornalisti, la legalizzazione di alcune formazioni politiche messe al bando in passato, e l’apertura al ritorno in Etiopia di gruppi ribelli che avevano cercato rifugio in esilio.

Nonostante queste iniziative, la situazione nel paese è ancor oggi tesa: le divisioni etniche e il riemergere di rivendicazioni politiche prima represse hanno provocato negli scorsi mesi molti scontri in cui sono morte centinaia di persone, e un fallito colpo di stato organizzato lo scorso giugno da un gruppo militari della regione dell’Amhara (nel Nord-Ovest del paese).

Per questo l’International Crisis Group, una Ong che si occupa di analisi e revisione dei conflitti, ha recentemente detto che il governo etiope “potrebbe dover rinviare le elezioni” a causa di “una campagna divisiva con candidati che fanno appelli al voto su base apertamente etnica”.

Il governo ha però assicurato a più riprese di essere in grado di garantire lo svolgimento e la sicurezza del voto, a cui Abiy si presenterà da capo di una nuova formazione, il Partito della prosperità, nato a novembre dall’unione di tre dei componenti dell’Eprdf: una fusione che ha provocato anch’essa dei contrasti fra il primo ministro e alcuni dei suoi alleati, e che il quarto membro della federazione, il Movimento di liberazione del popolo tigrino, ha definito illegale.

Macedonia del Nord

Poco meno di due milioni di nord-macedoni andranno alle urne il 12 aprile 2020 per scegliere i membri del nuovo Parlamento, in anticipo di sei mesi sulla scadenza naturale prevista per novembre.

Le elezioni anticipate sono state convocate dal primo ministro Zoran Zaev (leader dell’Unione social democratica della Macedonia, e capo del governo dal 2017), dopo che a ottobre il Consiglio europeo – a causa del veto opposto dalla Francia – ha deciso di rinviare l’inizio delle discussioni per l’ingresso del paese balcanico e dell’Albania nell’Ue.

Il primo ministro della Macedonia del Nord, Zoran Zaev, con la cancelliera tedesca Angela Merkel (Foto: Wikipedia)

Una scelta che ha provocato molta delusione in Macedonia e che Zaev ha definito “un errore storico“. Arrivato al potere dopo i due anni di proteste che avevano portato alle dimissioni del suo predecessore, Nikola Gruevski (che aveva posizioni filo-russe ed era stato promotore di una politica iper-nazionalista che rintracciava le origini etniche dei macedoni contemporanei in quelle dell’antico popolo di Alessandro Magno), durante il suo mandato Zaev ha puntato molto su un riavvicinamento alla Nato e all’Unione Europea.

Un processo scandito dallo storico accordo raggiunto nel 2018, dopo molti sforzi, con il governo greco per cambiare il nome ufficiale del paese da Macedonia (denominazione non riconosciuta dalla comunità internazionale: al suo posto era utilizzato l’acronimo Fyrom, cioè “Ex repubblica Yugoslava della Macedonia”) a Macedonia del Nord, ponendo termine a una disputa quasi trentennale.

Il nuovo nome è stato adottato ufficialmente lo scorso febbraio, e ha fatto venire meno il veto della Grecia all’ingresso della Macedonia del Nord nell’Ue e nella Nato: entro l’inizio del 2020 il 30° membro dell’alleanza atlantica.

La decisione del Consiglio Europeo è stata quindi un vero e proprio smacco per il governo di Zaev, che in questi due anni non è peraltro riuscito a migliorare la qualità della vita di molti nord-macedoni, deludendo le speranze nate dopo le proteste del 2015-16.

Con le prossime elezioni, il premier cerca una difficile conferma, che gli garantisca altri quattro anni di mandato per proseguire la sua politica di avvicinamento all’UE, mentre l’opposizione del partito nazionalista Vmro-Dpmne ha già detto che in caso di vittoria ha intenzione di ridiscutere l’accordo con la Grecia.

Nuova Zelanda

Quando è arrivata al potere, due anni fa, Jacinda Ardern, leader del partito laburista neozelandese, era diventata a 37 anni la donna più giovane a capo di un governo, un record ‘scippatole’ pochi giorni dalla neopremier finlandese Sanna Marin.

Poche settimane dopo aveva annunciato di essere incinta, e nei mesi successivi la sua popolarità era cresciuta grazie tanto alla sua abilità di combinare la maternità con il suo ruolo pubblico, quanto alla sua reazione – assieme compassionevole e decisa – alla strage di Christchurch del 15 marzo scorso, quando un terrorista vicino ad ambienti neofascisti ha ucciso 50 persone e ne ha ferite altrettante.

Jacinda Ardern ai funerali delle vittime dell’attentato di Cristchurch (Foto: Kai Schwoerer/Getty Images)

Nell’ultimo periodo, però, il consenso dell’esecutivo è in calo, così come la popolarità di Ardern (che resta però più alta di quella dei suoi rivali), mentre si sta per aprire l’anno che porterà il paese alle elezioni legislative, che si terranno al più tardi il 21 novembre.

Le rilevazioni più recenti segnalano infatti un calo dei consensi, con molti elettori preoccupati dal fatto che il governo non sia riuscito a mantenere le sue promesse, soprattutto per quanto riguarda la lotta alla povertà e al problema dei senzatetto nelle città.

Nel frattempo, l’economia è cresciuta poco a causa di un fallito progetto di edilizia residenziale pubblica e delle restrizioni all’esplorazione petrolifera e agli investimenti esteri nel settore immobiliare, che hanno intaccato la fiducia delle imprese. Inoltre, alcuni giornali neozelandesi hanno sollevato dei dubbi sulla posizione di Ardern in merito a un caso di molestie  sessuali che ha coinvolto un esponente del partito Laburista.

Infine, l’eruzione del vulcano White Island, che ha provocato la morte di 16 persone, ha suscitato domande sul perché i turisti fossero stati autorizzati a visitare un’isola con un vulcano attivo, e preoccupazione sui possibili impatti lungo termine della tragedia sul settore del turismo, molto importate per la Nuova Zelanda.

I sondaggi attualmente disponibili, per quanto manchi quasi un anno al voto, attribuiscono comunque ai Laburisti una percentuale superiore a quella raccolta alle ultime elezioni, nel 2017, ma prevedono che il risultato si giocherà sul filo di lana, così come quello dei due referendum che si svolgeranno assieme al voto politico, e che riguardano due temi sensibili come la legalizzazione dell’eutanasia e dl consumo di cannabis.

Bonus: il referendum in Cile

Dopo le violente proteste che hanno agitato il paese negli scorsi mesi, scatenate da un piccolo aumento delle tariffe della metropolitana di Santiago e che poi si sono allargate alle  richieste di maggiore giustizia sociale e di riforme della sanità, delle pensioni e del sistema educativo, il 15 novembre – dopo due giorni di trattative – il parlamento cileno ha trovato un accordo per un referendum costituzionale che si terrà il 26 aprile del prossimo anno.

Le proteste dello scorso ottobre a Santiago del Cile (Foto: Carlos Figueroa/Wikipedia)

Con il voto, i cileni dovranno decidere se vogliono una nuova Costituzione che sostituisca quella attuale, approvata negli anni della dittatura di Pinochet e finora rimasta quasi del tutto inemendata, e – in caso positivo – chi dovrà essere incaricato di scriverla: una Convenzione costituente eletta ex novo, o un’assemblea mista, composta per metà da nuovi eletti e per metà da parlamentari attualmente in carica.

Se i cileni voteranno per il sì a una nuova carta fondamentale, il prossimo ottobre si svolgeranno, assieme alle elezioni municipali, quelle per eleggere l’assemblea costituente, che avrà tempo fino alla fine del 2021 per svolgere i suoi lavori.

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