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lunedì, Mar 09

Nucleare, le difese che nessuno usa: storia di sprechi all’italiana



Da Wired.it :

Nei porti sono stati installati scanner per smascherare le scorie radioattive importante senza permesso. Ma dal 1996 non sono mai entrati in funzione. Ecco perché: l’inchiesta di Wired

Un container con materiale nucleare (foto Thomas Trutschel/Photothek via Getty Images)
Un container con materiale nucleare (foto Thomas Trutschel/Photothek via Getty Images)

Anno Domini 1996. I Take That si sciolgono, Fidel Castro fa visita al Papa, Bill Clinton è rieletto presidente degli Stati Uniti, Motorola lancia il cellulare Startac, in Italia alle elezioni politiche vince l’Ulivo di Romano Prodi. In agosto l’allora ministero dell’Industria e del commercio dà il via libera all’acquisto di 30 portali che serviranno a individuare il materiale radioattivo in arrivo in Italia.

Il costo dell’operazione è di 5 miliardi di lire. I grossi scanner saranno installati alle frontiere, nei porti in primis, e tutti i container in entrata dovranno sottoporsi all’esame, in modo da smascherare casi di importazione non autorizzata di sostanze radioattive. L’obiettivo è prevenire i pericoli di inquinamento nucleare e il traffico occulto di materiali pericolosi.

Anno Domini 2020. A dirsi addio sono Benji e Fede, convivono due papi, alla Casa Bianca l’inquilino Donald Trump è in uscita, i cellulari si preparano alla rivoluzione 5G, in Italia la coalizione formata da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Italia Viva tiene in piedi il governo Conte bis. Ma a 24 anni di distanza nessuno dei 30 portali per la radioattività è ancora entrato in funzione. Acquistati, installati e collaudati, gli scanner radiometrici fanno la polvere nell’attesa che qualcuno li accenda. Sempre che funzionino ancora.

E come in ogni classica storia di sprechi all’italiana che si rispetti, c’è lo zampino della burocrazia. A causa di un rimpallo di responsabilità tra enti pubblici, da più di vent’anni questi scanner, ritenuti indispensabili per evitare che sostanze radioattive entrino senza controllo in Italia con le tonnellate di merci scaricate ogni giorno nei porti, giacciono inutilizzati.

Scorie nucleari (Photo by: Andia/UIG via Getty Images)
Scorie nucleari (Photo by: Andia/UIG via Getty Images)

Il buco nei controlli

Wired ha condotto un’inchiesta per sapere che fine hanno fatto gli impianti, pagati dai contribuenti e mai entrati in funzione, ed è in grado di fornire la loro esatta collocazione.

Non solo: attraverso una massiva operazione di accesso civico agli atti condotta grazie al Freedom of Information Act (Foia), la normativa introdotta nel 2016 per rendere più trasparenti le informazioni in mano alla pubblica amministrazione, con la collaborazione di Transparency International Italia (associazione non governativa per il controllo della corruzione), Wired ha scoperto che la maggior parte degli enti che dovrebbero sovrintendere ai controlli, dalle autorità portuali alle agenzie regionali per l’ambiente (Arpa), non sa neppure di avere in casa questi scanner. Né riesce a fornire documenti sulle sostanze radioattive importate o respinte nei porti di competenza.

La mancata attivazione di questi scanner per la radioattività è una grossa falla nei sistemi di sicurezza contro il traffico di sostanze pericolose. Nell’aprile 2019 cinque tonnellate di coltan, un minerale da cui si estrae il tantalio, elemento vitale per microprocessori, smartphone e computer, sono state sequestrate nel porto franco di Trieste.

Il carico, del valore di 300mila euro, non ha neppure viaggiato sotto coperta. In Venezuela il governo di Nicolas Maduro ha salutato tra squilli di tromba la partenza per l’Italia del coltan che, approdato a Livorno, è stato infine trasferito su gomma a Trieste. Ma per tutto il viaggio il carico non esponeva indicazioni sulla sua radioattività, un’assenza che ha fatto scattare il sequestro e un’interrogazione parlamentare della deputata del Pd, Debora Serracchiani.

(foto Afp via Getty Images)

Il peccato originale

Dei portali radiometrici si inizia a parlare nel 1996. L’8 agosto la legge 421 converte un decreto di giugno, con “disposizioni urgenti”. Tra le quali il potenziamento delle difese dai pericoli di inquinamento nucleare. La norma stanzia 40 miliardi di vecchie lire per l’intero programma e 5 miliardi per i soli portali, avvia la macchina degli acquisti e affida ai vigili del fuoco la gestione degli scanner.

A dispetto dell’urgenza i macchinari non arrivano che tre anni dopo, nel 1999. Fabbricati in Finlandia, sono importati in Italia dalla società Sepa di Torino, come si evince da un’interrogazione parlamentare del 2015, primo firmatario Gianni Girotto, senatore nei banchi del Movimento 5 Stelle. I sistemi radiometrici, nome in codice Rtm910t, sono collaudati al costo di un milione di euro. Che sommato alla spesa per acquistarli, porta il conto dell’operazione a un totale di 3,5 milioni di euro. Che diventano 23,5 milioni, se si aggiorna la stima dell’intero programma.

Pronti nel 2003, i portali per la radioattività finiscono però nel dimenticatoio. “Non sono mai entrati in esercizio”, è la risposta ufficiale a Wired del ministero dello Sviluppo economico, l’unico ad avere fornito una ricostruzione di quanto accaduto dopo la richiesta di accesso agli atti.

Il perché del fermo? Il Mise ipotizza varie ragioni, tutte di natura burocratica. In ordine: nominare un gestore del traffico merci e un responsabile che scelga quali analizzare; stabilire le procedure per rispedire al mittente un carico fuorilegge; fissare la soglia di allarme per fermo e rifiuto del container; decidere chi fa e come la manutenzione degli scanner; scegliere dove piazzare le merci positive ai test; assumere rinforzi per i vigili del fuoco, a cui la legge del 1996 e un decreto del 2007 affidano i portali. Tutte cose mai fatte.

Ministero dello Sviluppo economico (LaPresse - Stefano Costantino)
Ministero dello Sviluppo economico (LaPresse – Stefano Costantino)

Le carte dimenticate

Di questi atti, però, il Mise non ha potuto fornire copia a Wired, “considerata la difficoltà di reperire, dopo più di 20 anni, il decreto di acquisto dei portali – presumibilmente esistente solo in formato cartaceo”. Non solo gli scanner radiometrici sono spariti dai radar. Lo è pure la documentazione ufficiale. Al Mise on è andata meglio bussando al ministero dei Trasporti, alle Capitanerie di porto e al neonato Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare (Isin), l’autorità di vigilanza sull’atomo nata solo nel 2018. Alla richiesta di accesso agli atti di Wired ha risposto di non avere informazioni anche il ministero dell’Interno, che però è proprio il dicastero che dovrebbe prendere in carico i portali, dato che ha sotto la sua ala i vigili del fuoco.

In verità il Mise ha sollecitato il Viminale ad attivare i portali in una riunione del 2008, come Wired ha potuto ricostruire grazie a una fonte che ha chiesto l’anonimato per contribuire all’articolo, ma gli Interni hanno messo la questione in standby, perché non hanno soldi per le assunzioni, la manutenzione dei portali e gli aggiornamenti tecnici. Tanto da proporre di passare la palla o all’Agenzia delle dogane o alle autorità portuali. Ma niente da allora è stato fatto. E a forza di procrastinare, i portali per la radioattività sono diventati obsoleti. Tecnologia mai utilizzata e ormai superata.

La mappa dello spreco

Dove si trovano? Grazie alla fonte confidenziale, Wired può ricostruire la collocazione di tutti i portali. Sette quelli in Friuli-Venezia Giulia, che è la regione che ne detiene il maggior numero: a Trieste e nell’interporto Ferretti, a Muggia, Monfalcone, Gorizia (sulla linea ferroviaria) e San Giorgio di Nogaro. In Veneto Venezia ne ospita quattro, Chioggia due. Tre sono in Liguria, nei porti di Savona, Genova e La Spezia. E altrettanti in Puglia: a Taranto, Brindisi e Bari. Due i portali installati in Abruzzo, a Pescara e Ortona. Infine, ne hanno uno Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, rispettivamente nei porti di Livorno, Ravenna, Civitavecchia, Salerno, Gioia Tauro e Milazzo. Infine due sono sui tracciati ferroviari a Domodossola, in Piemonte, e Ponte Chiasso, in Lombardia.

Siccome la responsabilità di questi impianti balla tra Mise e Viminale, le autorità portuali spesso non sanno di avere uno di questi scanner in dotazione. È il quadro che emerge da un accesso civico generalizzato effettuato con il supporto di Transparency International Italia.

L’Autorità del mare Adriatico orientale, che gestisce Trieste e Monfalcone, fa sapere che “non è a conoscenza di alcun portale per il controllo del materiale radioattivo installato presso le aree portuali di nostra competenza”. Per la cronaca, ce ne sono due. Non ne sa nulla neanche l’autorità del mar Tirreno settentrionale (sotto cui ricade Livorno). “Non risultano attivi portali per il controllo del materiale radioattivo”, scrive l’autorità di Gioia Tauro. Altre autorità, come quella del mar Ionio (porto di Taranto), si trincerano dietro il fatto che i portali non siano di loro responsabilità, quindi non siano tenute a sapere se sono attivi o meno. Il suggerimento da Venezia e Bari è di chiedere ai terminalisti.

L’autorità del mar Ligure occidentale non sa dell’esistenza di quello di Genova, mentre è informata di quello di Savona, “che non è utilizzato in quanto l’attività di controlli radiometrici […] è affidata direttamente al terminalista”. Dal mare Adriatico centrale confermano il fermo macchina di quelli di Ancona, Pescara e Ortona: “Non risultano installati portali funzionanti”.

E dire che le autorità portuali dovrebbero conoscere a menadito le infrastrutture che gestiscono. Sono responsabili della pianificazione del porto, dell’organizzazione degli spazi e dei servizi, del controllo delle operazioni e della sicurezza. Da buoni padroni di casa, se si ritrovano in cortile uno scanner per beccare sostanze radioattive che potrebbero passargli sotto il naso, sarebbe opportuno che ne fossero informate.

Una nave merci cinese di Cosco approda in un porto (Getty Images)
Una nave merci cinese di Cosco approda in un porto (Getty Images)

Punto interrogativo

Sono all’oscuro della faccenda anche le Arpa, che pure hanno tra i loro compiti la prevenzione dell’inquinamento. Ciononostante, dicono di non ricevere neppure segnalazioni dirette sull’importazione di sostanze radioattive, sebbene poi tocchi loro andare sul posto se viene intercettato un pacco sospetto.

Il risultato è che, pur avendo i portali, le autorità si arrangiano con altri strumenti. Tradotto: il contribuente paga due volte. La prima volta per comprare degli scanner inutilizzati. La seconda per affittare altri dispositivi. L’Arpa del Friuli Venezia-Giulia scrive che nei porti di Trieste, Monfalcone, San Giorgio di Nogaro, all’interporto Fernetti, tutti dotati di uno di questi impianti già dal 2003, i controlli si fanno con “strumentazione manuale”. A Gorizia, dove pure c’è un portale spento, se ne usa uno privato.

Anche l’Agenzia per le dogane, come spiegato in un’audizione alla commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie lo scorso ottobre, ricorre ad altri strumenti, come scanner a raggi X di ultima generazione. Ma i controlli sono effettuati a random, mentre la funzione dei portali era proprio di applicarli a tutte le merci, facendo scorrere le file di tir attraverso due le colonne di rilevamento. In questo modo sarebbe stato più difficile introdurre di soppiatto in Italia sostanze radioattive.

Rispedire il pacco al mittente

Attraverso l’accesso civico generalizzato, Wired ha chiesto a tutte le Arpa delle regioni che ospitano porti (Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Campania, Abruzzo, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) riscontri sui carichi radioattivi individuati tra il 2015 e il primo semestre del 2019, con tanto di copia dei documenti doganali (o almeno con i nomi degli importatori e dei destinatari, date e luoghi di arrivo, tipo di controllo ed esito).

Solo due agenzie hanno risposto: quelle di Friuli-Venezia Giulia e Liguria. La prima in breve ha spiegato di aver ricevuto “23 segnalazioni di anomalie radiometriche” da Gorizia. Tutti carichi rispediti al mittente. Due allarmi sono scattati anche all’interporto Fernetti di Trieste: per uno l’allerta è rientrata, mentre il secondo è stato respinto.

La Liguria ha fornito invece uno schema puntuale di tutti i respingimenti in quattro anni: 26 casi, di cui sette per container in arrivo dagli Emirati arabi uniti. Nella maggior parte dei casi è stato rispedito al mittente l’intero carico. Tra i radionuclidi trovati (ossia specifici atomi che decadono, emettendo energia sotto forma di radiazioni), ci sono cesio 137, americio 241 e cobalto 60. Il primo, spiega Stefano Maggiolo, direttore scientifico di Arpa Liguria, “è un residuo di fissione nucleare, usato in pratiche sanitarie o industriali, per esempio per valutare l’altezza di un altoforno, pertanto può capitare che una colata di acciaio possa essere contaminata”. Stessi usi anche per il cobalto 60. Mentre l’americio 241, spiega, “serve per calibrare strumenti di misura”.

Altre sostanze bloccate sui moli liguri sono state l’uranio 235 e 238, “usato per fare elementi combustibili”, precisa Nadia Cherubini, ingegnere della divisione tecnologie, impianti e materiali per la fissione nucleare dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico (Enea), un ente pubblico di ricerca; il torio 232; il radio 226, che l’esperta ricorda si adopera “per parafulmini e rilevatori di fumi”.

Maggiolo osserva che l’allerta sulle importazioni di sostanze radioattive parte “alla fine degli anni Ottanta, quando venivano smantellate le centrali nucleari dei Paesi dell’est e il rischio di trovare materiali radioattivi tra i rottami metallici o ferrosi non era trascurabile”. Il che spiega perché in Friuli e Veneto si concentri la maggior parte dei portali radiometrici. Oggi, prosegue il direttore scientifico di Arpa Liguria, chi importa materiale radioattivo deve dichiararlo. A suo carico “c’è il controllo”, fatto con scanner manuali. “Se c’è un’anomalia, si attiva un protocollo di emergenza che coinvolge prefettura, vigili del fuoco e Arpa stessa”, dettaglia Maggiolo. Obiettivo: isolare la sorgente fuori norma.

Il problema insorge però quando un importatore cerca di introdurre sostanze radioattive di nascosto o senza rispettare le regole del settore. I respingimenti archiviati da Arpa Liguria dimostrano che sono tutt’altro che casi eccezionali e purtroppo, nonostante una chiara richiesta di accesso agli atti, non sappiamo cos’è successo nelle altre regioni. “Le sorgenti sono coperte da rottami metallici, che attenuano le radiazioni”, precisa Cherubini. L’americio 241, lo stronzio 90 e l’ittrio, per esempio, “sono difficilissimi da vedere se c’è del metallo”, approfondisce l’esperta. Per questo sarebbero utili gli scanner che l’Italia ha comprato. “Se tarati bene, questi portali sono abbastanza validi”, chiosa l’ingegnere dell’Enea.

Perché serve un deposito nazionale

Fermare le sostanze radioattive indesiderate alle frontiere non ha solo dei chiari vantaggi ambientali, ma anche economici. Il respingimento è a carico dell’importatore. Se invece il container viene sbarcato e la sorgente nucleare scoperta successivamente, finisce sul groppone dello Stato italiano, che deve occuparsi di smaltirla, perché ritenuta orfana. Al momento questo tipo di rifiuti finisce nel deposito temporaneo della società Nucleco nel centro ricerche Casaccia dell’Enea, alle porte di Roma. Oggi contiene 4.800 metri cubi di rifiuti radioattivi, tra solidi, liquidi e sorgenti condizionate.

Tuttavia questa è una soluzione tampone. Anche l’Italia deve costruire un deposito nazionale delle scorie radioattive. Un progetto urgente, ma perennemente fuori dai radar della politica. La carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi), ossia la mappa che identifica i territori che hanno tutte le carte in regola per ospitare l’impianto, è stata aggiornata e attende il via libera alla pubblicazione. Tocca ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente accendere il semaforo verde e avviare la trattativa per scegliere la destinazione finale.

Secondo Emanuele Fontani, il nuovo amministratore delegato di Sogin (la società di Stato che si occupa del decommissioning nucleare), se si partisse subito si potrebbe terminare il cantiere prima del 2025, anno in cui scadono i costosi contratti per stoccare le scorie radioattive italiane all’estero. In alternativa, il governo dovrebbe mettere di nuovo mano al portafoglio, finanziato dagli oneri in bolletta che tutti i contribuenti pagano per lo smantellamento nucleare (circa il 3%). D’altronde, la messa in sicurezza delle scorie radioattive è una partita in cui tutti i governi investono poco o zero energia. Lo stesso Isin, che deve vigilare sulla filiera dell’atomo, parte zoppo: da due anni chiede rinforzi, visto che il 30% dei 54 dipendenti è prossimo alla pensione.

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[Fonte Wired.it]