La regione Lombardia e l’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno siglato nella mattinata di mercoledì 21 maggio un memorandum d’intesa sul nucleare. Poco indicativa nella sostanza, la sigla è tuttavia un segnale politico: sia a livello locale sia – ed è quel che conta di più – su scala nazionale. “E’ il primo accordo regionale nella storia dell’agenzia, e testimonia le capacità della Lombardia dal punto di vista culturale e tecnologico ”, ha dichiarato il direttore dell’organizzazione, Rafael Mariano Grossi, in un italiano perfetto dovuto ai nonni piemontesi di Tortona. “Il significato è quello di iniziare un processo”, ha aggiunto il presidente lombardo Attilio Fontana. “Non chiedetemi dove faremo gli interventi”, ha precisato, però: perché l’opposizione al nucleare nel paese è figlia degli incidenti del passato (Chenorbyl, Fukushima) e nessuno vuole una centrale vicino casa. Né tantomeno le scorie. “Si tratta di un approfondimento rivolto alle nuove tecnologie”, ha ripreso Fontana provando a spiegare il senso del memorandum che, al momento, è un contenitore vuoto. “Siamo i primi perché riteniamo che la Lombardia abbia la necessità di rispondere alle problematiche e alle sfide di questi tempi a livello mondiale”, ha ripreso. “Non possiamo permetterci di dipendere da geopolitica e materie prime per produrre l’energia che ci serve: dobbiamo muoverci verso l’autonomia. Ed è chiaro che in un territorio dove i consumi stanno aumentando costantemente dobbiamo creare le condizioni per utilizzare anche l’energia atomica”.
Il memorandum d’intesa non è uno strumento vincolante: si colloca un gradino sopra il gentlemen’s agreement (la classica stretta di mano): denuncia, però, un allineamento di intenti che è supportato da Roma (intervenuta con il sottosegretario Giorgio Silli). “L’attuale contesto internazionale rende evidente la necessità di garantire la sicurezza energetica”, ha detto Silli, “e il nucleare può giocare un ruolo in un mix integrato e tecnologicamente neutro”. Questa, del resto, sin dall’inizio è stata la linea dell’esecutivo Meloni.
Che differenza
Che differenza con tre o quattro anni fa, quando pronunciare la parola “nucleare” era difficile, in Italia. Il lavoro di palazzo Chigi è cominciato subito, dapprima con aperture graduali, rapidamente stigmatizzate da chi era contrario: ma la manovra di accerchiamento ha funzionato, e nel giro di trenta mesi è possibile assistere a una tavola rotonda istituzionale in cui non solo la parola è stata completamente sdoganata; nel convegno si spinge apertamente per fare in fretta e non perdere il momentum, senza badare alle bad pr che avrebbero frenato le dichiarazioni dei manager fino a non troppo tempo fa.
A scalpitare, per esempio, è l’Enea: originariamente l’acronimo stava per Ente nazionale energia atomica. E’ rimasto, ma oggi la dizione ufficiale è Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Il fatto che, a dispetto del significato, si sia mantenuta la sigla è indicativo di per sé. Nei laboratori non si è mai smesso di fare ricerca (gli italiani hanno un’expertise notevole e riconosciuta e una scuola che, da Fermi a Rubbia, ha pochi rivali). Ma l’agenzia suonava in sordina. Oggi può tornare a parlare. Il mutamento di passo è palese ascoltando Alessandro Dodaro, direttore del dipartimento nucleare, invitato al consesso che ha preceduto la firma. “In Italia per fortuna la ricerca non si è mai fermata grazie all’impegno nostro e delle università”, ha detto. “L’Enea ha continuato a lavorare sulle diverse forme di nucleare e da quindici anni anche sulla fissione di nuova generazione”. “Chi sostiene che il nucleare costa troppo rispetto alle rinnovabili dovrebbe pensare che, se si fosse fatto lo stesso discorso 25 anni fa per eolico e solare, i prezzi non sarebbero scesi”.