Seleziona una pagina
sabato, Gen 25

Nuovi modi di raccontare il Giorno della memoria


A poche ore dalla ricorrenza del 27 gennaio, nuove letture e anticipazioni editoriali che potrebbero cambiare il nostro modo di raccontare gli orrori della Shoah, e non solo. Da romanzi sperimentali a storici, passando per i saggi e il fumetto

Il prossimo 27 gennaio si rinnova l’appuntamento con la Giornata della memoria, e come ogni volta ci si interroga sul quale possa essere il modo migliore per raccontare l’Olocausto, e anche rammentare gli altri orrori e genocidi compiuti dall’umanità, specie nel corso del Novecento. A volte le classiche arte documentaristiche e i musei della memoria paiono insufficienti a fare della storia monumentaria una storia raccontabile da tutti. Per questo è buona cosa provare a indicare una mappa di proposte alternative per nuove letture sulla memoria, tra anticipazioni e nuove uscite.

Ci ha da sempre sorpresa per la sua capacità di raccontare e scavare nella memoria con ricerche avvincenti tra fotografie, documenti, dossier-archivi e semi-autobiografia: stiamo aspettando in Italia l’arrivo dell’ultimo romanzo postumo della compianta autrice croata Daša Drndić, Eeg, pubblicato originariamente nel 2016. Anche qui, come con i precedenti Trieste e Leica Format, l’autrice – immergendosi nella voce del narratore Andreas Ban, psicologo in pensione che compie un viaggio di ritorno nelle sue terre dal Canada scoperchiando le proprie memorie e quelle dei pazienti – sembra scegliere di giocare a scacchi con il passato tremendo dell’Europa e dei suoi confini, pezzo per pezzo, accumulando liste degli stessi giocatori di scacchi suicidi o eliminati dalla guerra, criminali e vittime del nazismo, il complottismo o una lunga lista di libri sequestrati dagli ebrei jugoslavi. Giocare, tra falsificazioni e documenti, con la partita con la realtà da recuperare delle atrocità del passato, sarà per Ban – e tragicamente anche per l’autrice – giocare alla fine quell’ultima, famosa, partita con la Morte. “La realtà impone” d’altronde “il suo gioco”, dice Ban, “senza pietà e in modo crudele”.

Un racconto particolare e differente sugli anni tragici del nazismo e della persecuzione ebrea, anch’esso sospeso tra la realtà e la sua contraffazione, è quella del romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens, riproposto dopo una prima uscita in Italia da Sem, anche per via della concomitanza dell’arrivo al cinema del film tratto dal romanzo, Jojo Rabbit. Johannes, giovane aderente alla Gioventù hitleriana costretto ad abbandonare la militanza per via di un incidente che l’ha sfigurato, fa una scoperta per lui inquietante nella casa dei genitori: dietro un falso muro è segretamente protetta dai suoi una ragazza ebrea, Elsa. Lei diviene subito un’ossessione, quasi un tabù da violare, come lui, con la sua deformazione, allo stesso tempo lo diviene per lei. “Da quanto tempo sei in casa mia?”, è la prima domanda di Johannes a Elsa. “Baciarla diventò un’ossessione. Avevo superato tante prove, avevo difeso il Reich e adesso ero così codardo da non riuscire a fare un gesto così piccolo?”, si interroga dopo poco. Gli anni passano, l’ossessione amorosa aumenta, così come la segregazione necessaria.

Ma poi le cose, per le strade, a Vienna e oltre, cambiano. Elsa sarebbe sulla carta libera di uscire per strada, ma Johannes non vuole interrompere l’incantesimo. Comincia così la sua interminabile carriera di bugiardo, per difendere quel loro piccolo segreto che, alla fine, ironia della storia, lo ingabbia: “Avevo perso la nozione di casa. Quella per me era la gabbia di Elsa. Sì, era stata Elsa ad accogliermi. Non avendo più un posto mio, mi ero rifugiato nel suo territorio…”. Un romanzo che gioca sul concetto di famigliarità e di menzogna, in uno spazio intimo e segreto, per rovesciare il racconto storico dell’ascesa e caduta di Hitler, e ad un tempo rivelarlo davvero nel suo orrore.

Altrettanto particolare, e storicamente documentata, è la vicenda straordinaria raccontata dall’olandese L’Alto Nido di Roxane Van Iperen uscito in questi giorni per Bompiani. Straordinaria è innanzitutto la notizia iniziale riportate nella prefazione. “L’impensabile accade. Alla fine dell’estate 2012 io, mio marito e i nostri tre bambini, insieme a tre gatti e a un pastore tedesco a pelo lungo, ci trasferiamo in una roulotte nel giardino dell’Alto Nido e diamo inizio al lungo restauro di questa villa speciale”, che avevano appena acquistato. L’Alto Nido è un’incantevole dimora di campagna poco fuori Amsterdam, ma ben presto, nel restauro rivela un segreto: “A mani nude strappiamo via la moquette e, quasi in ogni stanza, nei pavimenti in legno e dietro tavolati logori scopriamo botole e nascondigli in cui giacciono mozziconi di candela, spartiti musicali e vecchie riviste della resistenza antifascista. Ed è così che inizia anche la ricostruzione della storia” non tanto della casa “dell’Alto Nido”. Con piglio appassionante, la scrittrice risala alla vicenda di quel luogo-comunità segreto scampato ai rastrellamenti nazisti nell’Olanda degli anni 40, grazie al volere delle due sorelle Lien e Janny Brilleslijper.

Nell’Alto Nido trovano rifugio e sollievo i bambini ebrei, mentre Lein compone musica e la condivide con gioia con gli altri abitanti di un luogo che diviene per la Resistenza olandese un luogo magico: “Il regime della potenza occupante ha condannato l’intero paese a un’esistenza spartana, ma dall’Alto Nido si sviluppa una rete sotterranea di artisti” che allietano le notti e la tristezza con la loro musica. Il libro della Van Iperen racconta di vite spezzate dall’Olocausto (le due eroine saranno deportate e incontreranno due sorelle forse più famose, Anne e Margot Frank), la Storia con la S maiuscola passa attraverso l’intimità straordinaria del magico mondo dell’Alto Nido, che dimostra che la vita è a volte più ricca e speranzosa delle crudeltà che vorrebbero annientarla.

Chi volesse invece prosegue verso lidi in lingua spagnola non potrà ignorare, benché non legato direttamente all’Olocausto, il lavoro inquietante e particolarissimo sulla memoria della guerra civile spagnola (e non solo) che apre il volume Trilogia della guerra di Agustin Fernandez Mallo, presto in Italia per Frassinelli, autore di culto iberico e famoso per aver lanciato quella che in Spagna viene chiamata la Nocilla Generation. All’apparenza i romanzi di Mallo presentano una struttura quasi caotica: sembrano mappe di esplorazioni abbastanza casuali, random perché random è in fondo il vivere contemporaneo.

Come rispolverare la memoria e le sue vittime allora, secondo Mallo? Quasi portato lì per caso, il narratore della prima parte di questa Trilogia si imbatte nell’isola di San Simon in Galizia (è lì per un convegno). Scopre piano piano, attraverso strani personaggi (in particolare due camerieri che lavorano nell’hotel del convegno) e coincidenze inquietanti, che l’isola è stato un campo di detenzione del franchismo per dissidenti e soprattutto anziani mandati lì a morire tra i peggiori stenti. Il narratore cerca così di rianimare i fantasmi del luogo attraverso una bizzarra ricerca di sintonia: si intrufola nell’isola in un periodo di assenza dell’umano, non solo fa ricerca di archivio in vecchi 486 lì disponibili, ma anche scatta foto e ascolta lynchianamente le routine silenziose della stessa isola, e quasi vi rimane intrappolato. Dopo un breve periodo lì, afferma, alla fine della prima parte una frase ricorrente nel libro: “Non ho coscienza di quel periodo”. Per Mallo, la memoria può essere riattivata solo attraverso la ricerca rabdomantica di queste coincidenze, che porteranno il narratore a viaggiare (e cambiare), tra New York, la costa della Normandia, il Vietnam. “La memoria”, ha detto l’autore in un’intervista al riguardo del libro, “non è mai un archivio né un racconto fedele, perché la memoria è sempre in prima persona, una ricostruzione fatta dal presente, molto potente narrativamente ma mai fedele”.

Muovendoci sul lato invece dei saggi recentemente usciti e cercando nuove prospettive potremmo considerare l’uscita Einaudi di questi giorni, Riflessioni sulla questione antisemita di Delphine Horvilleur, che compie un interessante rovesciamento: spiegare l’antisemitismo non dal punto di vista della tradizione antisemita di estrema destra o sinistra, ma dal punto di vista “interno”, attraverso l’analisi della Torah, del canone rabbinico e delle leggende ebraiche. Si apre con un’epigrafe feconda di Franz Kafka che recita: Che cosa ho in comune con gli ebrei? Ho a malapena qualcosa in comune con me stesso diceva Kafka. Per ricevere risposta all’essenziale domanda del Perché gli Ebrei non sono amati? dell’autore nell’Introduzione bisognerà, secondo lui stesso, andare a vedere come gli testi e leggende ebraiche abbiano rappresentato e quindi in fondo anche colpevolizzato l’ebreo. La letteratura presa in questione nel saggio non solo si prefigge di offrire agli ebrei la “possibilità di diventare soggetti della propria storia,” ma offre spesso letture originali “della psiche dell’aguzzino”, “non delimita la vittima entro i confini del suo dolore” né “il boia entro quelli del suo odio”. Capire l’antisemitismo dal punto di vista della tradizione semitica è la sfida affascinante e riuscita di questo saggio.

Andando in Francia, richiamiamo il romanzo sperimentale di George Perec, W o il ricordo d’infanzia, ripreso per i classici Einaudi di recente, grazie a un importante repechage. Il libro è diviso in due parti: la prima un racconto d’avventura attribuibile alla fantasia di un bambino; la seconda il frammentario memoir e archivio di ricordi del bambino Perec che si apre con la frase spiazzante “Je n’ai pas de souvenir d’enfance”, “non ho ricordi d’infanzia”. Entrambe le versioni del libro paiono celare l’orrore che accompagna l’infanzia del giovane Perec, segnata dalla deportazione e morte dei genitori ebrei. Un tabù che Perec sceglie di affrontare attraverso il gioco di queste due versioni e risparmiamo il ricordo ricostruito che fa della memoria personale una melensa memorialistica testimoniale.

Per concludere come sempre con fumetti e graphic novel, tra i molti libri che hanno messo in immagini e testo nuovi racconti dell’Olocausto vogliamo segnalare una chicca degli anni Ottanta: il manga La storia dei tre Adolf di Osamu Tezuka, il padre di, tra gli altri capolavori manga, Astroboy. I tre Adolf sono uno Adolf Kaufman, l’altro l’ebreo e suo amico Adolf Kamil, e il terzo l’Adolf che ahinoi conosciamo, rappresentato da Tezuka in questa storia modo assai irreale. La storia del fumetto, tra amicizie intense e dramma storico, si accende attorno all’ipotesi che una parte del Dna di Adolf Hitler provenga da una radice ebrea, segreto che costerà la vita ad un giornalista giapponese inviato in Germania nelle Olimpiadi degli anni Trenta. Sono più di 1000 pagine molto intense, tra suspense internazionale e esplorazione delle relazioni, che ci consento ancora una volta uno sguardo elaborato e nuovo sul nostro concetto di memoria storica.

Potrebbe interessarti anche





Source link