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mercoledì, Nov 27

Open, il Giglio magico sfiorisce nel far west delle fondazioni politiche


Si allarga l’indagine sull’ex cassaforte del renzismo che organizzava la Leopolda. E non solo, sostengono i pm fiorentini. Alla base, una legge incompleta e lo storico pasticcio del finanziamento ai partiti

Marco Carrai (foto: Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

Dopo anni di far west, in cui le fondazioni politiche, i think-tank o chiamateli come volete, hanno agito da braccio armato e finanziario del politico di turno e del suo codazzo, dall’inizio dell’anno c’è una legge che dovrebbe mettere ordine a questo scivoloso ambito. Dovrebbe, perché il far west è ancora lì fuori. La cosiddetta “legge spazzacorrotti”, poi modificata dal decreto crescita dello scorso giugno, prevede infatti diverse norme per la trasparenza dei partiti e regolamenta appunto, per la prima volta, il grigio universo delle fondazioni politiche, equiparandole ai primi.

Il primo punto, che tocca anche le indagini che da un anno stanno investendo la Fondazione Open legata a Matteo Renzi e alla sua scintillante parabola del Pd e al governo fra 2012 e 2018, sta proprio qui: è una legge inefficace e mutilata. I nuovi obblighi di trasparenza in capo a partiti, associazioni, comitati e fondazioni politiche sono numerosi: impongono la pubblicazione, anche online, di una serie di documenti che vanno dall’organigramma direttivo al bilancio fino alle donazioni ricevute e le spese effettuate superiori ai 500 euro e allo statuto.

Ma quante sono? Chi lo sa. Nel dettaglio, sono da monitorare tutte le strutture i cui organi direttivi siano composti per almeno un terzo da persone che hanno ricoperto incarichi politici negli ultimi sei anni in Parlamento o in Europa, al governo, nelle regioni e nei comuni con più di 15mila abitanti. Secondo una stima di OpenPolis, si tratta di 53.904 persone per, forse, 6mila soggetti associativi. Un numero elevatissimo sul quale dovrebbero indagare cinque giudici part-time e meno di una decina di impiegati della cosiddetta Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici istituita appunto con lo “spazzacorrotti”. Un organismo evidentemente inesistente che non riesce in alcun modo a scavare su questi intrecci.

Quando la produzione legislativa è pomposa ma la sua applicazione concreta ridotta all’osso, addirittura in questo caso grottesca, viene da pensare che in fondo vada bene a tutti così: all’opinione pubblica si trasmette un messaggio rassicurante, “le leggi ci sono!”, ma tanto la loro applicazione procede a rilento o si impasta nella cronica carenza di risorse umane e finanziarie. Esattamente quello che sta avvenendo in questi mesi.

L’indagine in corso su Open, fondazione che organizzava la Leopolda – il summit annuale del mondo renziano nell’ex stazione fiorentina – appare in qualche maniera figlia del recente e rampante passato dell’attuale leader di Italia Viva e affronta proprio i temi al centro di quella legge: i pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi ritengono che Open abbia agito come “articolazione di partito politico”, in particolare “rimborsando spese a parlamentari, mettendo loro a disposizione carte di credito e bancomat” e intendono dunque chiarire nel dettaglio “i rapporti tra la fondazione e i soggetti finanziatori”.

In particolare quelli fra l’allora presidente Alberto Bianchi, perquisito di nuovo dopo le operazioni dello scorso settembre, il consigliere Marco Carrai – amico d’infanzia di Renzi – entrambi indagati nell’indagine su traffico di influenze illecite, riciclaggio e finanziamento illecito ai partiti, e i finanziatori. Per questo, in nove città italiane, sono state effettuate altre perquisizioni da soggetti che hanno versato negli anni fondi nell’ex cassaforte del Giglio magico, dal finanziere David Serra ai fratelli Aleotti a Firenze fino all’armatore Vincenzo Onorato.

L’obiettivo è dunque appianare le logiche di eventuali do ut des dissimulati magari nelle maxiparcelle milionarie dell’avvocato Bianchi, semmai ce ne siano state, per esempio sul caso dell’emendamento che, nella manovra 2017 sotto Paolo Gentiloni, premier spalmò il debito di 121 milioni del gruppo Toto nei confronti di Anas per la concessione delle Strade dei parchi, A24 e A25 abruzzesi, fino al 2031 e direttamente nelle casse dello Stato. Una vicenda complessa da cui sono partite le indagini dei mesi scorsi.

Si ripropone, con protagonisti in parte diversi ma dinamiche sempre uguali a se stesse, il grande vulnus della democrazia italiana: il buco nero del finanziamento pubblico ai partiti, abrogato dal referendum radicale del 1993 sull’onda di Tangentopoli, con una decisione popolare di fatto disattesa per i successivi vent’anni tramite il sistema dei “contributi per le spese elettorali”, addirittura rafforzato nel 2001 e le successive e vergognose modifiche fra 2002 e 2006 (perfino con l’abbassamento del quorum all’1% per l’accesso ai rimborsi). Solo fra 2012 e 2014, con le riforme Monti e Letta, il luculliano pasto sarebbe terminato e sarebbero stati introdotti altri meccanismi, dal 2×1000 ai partiti alle detrazioni per le erogazioni liberali da persone fisiche o società.

È chiaro che se lo Stato non finanzia più i partiti politici dopo anni di ricche abbuffate – tema che da sempre solleva posizioni rispettabili pro e contro, ma dopo tanti e tali abusi un’ondata radicale era inevitabile – deve porsi il problema di normare nel dettaglio e con efficacia il loro rapporto sempre più stretto con la società civile, gli imprenditori, gli “amici” e i finanziatori. La “spazzacorrotti” lo fa a metà, dunque non lo fa. Di Gigli magici, e casi Open, ne avremo molti altri, in futuro.

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