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venerdì, Mar 05

Pacific Rim: La zona oscura, tornano i mostri in formato anime



Da Wired.it :

Il blockbuster americano di Guillermo del Toro che omaggiava i cartoni giapponesi sui robottoni diventa una serie d’animazione grazie a Netflix. Più dark e ambigua, è una goduria per fanatici – ma non solo – di “kaiju”, “mecha” e Cgi.

Tutti custodiscono nei loro cuori (e nella loro videoteca) un posto riservato ai film più visti: per alcuni è il Titanic, per altri come chi scrive, Terminator, AliensPacific Rim. Quest’ultimo, appassionato omaggio (qual è la differenza con il plagio? la quantità di amore per il soggetto “saccheggiato”) di Guillermo del Toro ai film giapponesi e ai cartoni animati su mostri e robottoni ha un nuovo sequel grazie a Netflix, da qualche ora disponibile sulla piattaforma streaming con i primi sette episodi. Pacific Rim: La zona oscura (in originale, Pacific Rim: The Black), trasfigura quell’ode in formato cinematografico che era il film di Del Toro nell’oggetto stesso di quell’adorazione: un anime di robottoni, realizzato da uno studio nipponico (la Polygon di Knights of Sidonia, specializzata in collaborazione con gli Usa, basti pensare a Star Wars: Clone Wars) caratterizzato da spettacolari, velocissime e adrenaliniche sequenze di scontri tra robot (jaeger) e mostri (kaiju).

In pratica quello che serve per rendere ancora più intriganti e “collezionabili” (chi scrive vorrebbe un Otachi di peluche) gli analoghi disegnati delle loro controparti live action di carne e metallo (infatti La zona oscura è una coproduzione statunitense, la patria del merchandise assieme al Giappone).

La zona oscura si declina in toni meno goliardici e gioiosi del blockbuster americano e più dark, tipici dei migliori cartoni giapponesi all’insegna della distopia fantascientifica postapocalittica. Protagonisti, Taylor e Hayley Travis, due fratelli adolescenti figli di una coppia di piloti di jaeger – i giganteschi robot costruiti per respingere gli attacchi dei mostri kaiju – in cerca dei genitori. Facciamo un passo indietro: la mitologia di Pacific Rim è semplice ma accattivante, e si rifà ai soggetti dei cartoni di robottoni degli anni ’70 alla Gō Nagai incentrati su invasioni aliene da parte di civiltà ostili che ricorrono a macchine giganti o mostri per attaccare la Terra, respinti da avanzatissimi “mecha” creati da scienziati che puntualmente – o quasi – designano figli muscolosi come piloti dei suddetti. A differenza dei vari Mazinga, Goldrake o Daitarn, in Pacific Rim i cattivi non sono pittoreschi villain che quasi si finisce per amare più degli arroganti piloti umani: in Pacific Rim i “precursori” restano entità misteriose e invisibili.

La zona oscura promette di gettare luce sugli avversari tecnologicamente avanzatissimi che, dopo la vittoria schiacciante degli umani nel film e quella, più sofferta e ambigua dell’orrido sequel, La rivolta, hanno avuto la meglio in The Black. Il cartone ci porta, infatti, nei luoghi indefiniti di un’Australia postapocalittica alla Mad Max dove una manciata di adolescenti ha vissuto in isolamento. Il sedicenne Taylor e la sorella minore Hayley decidono di cercare genitori e risposte sull’esito della guerra con Atlas Destroyer, uno jaeger dall’immancabile nome un po’ ridicolo da cavallo da corsa (come i piloti hanno sempre nomi ridicoli – come “Stacker Pentecost” – da protagonisti dei film americani di John Woo). Atlas è stato disarmato per essere utilizzato per l’addestramento, ma è facilmente gestibile grazie alla sintonia tra i percorsi neurali dei fratelli.

Questi colossi vengono infatti manovrati solo da coppie di piloti in grado di compiere il drift, una comunione mentale che immerge uno nei ricordi e nei traumi dell’altro, a volte con effetti deleteri. Con La zona oscura, come accennato, Pacific Rim perde i connotati della produzione americana che omaggia gli anime giapponesi degli anni ’70 per diventare un vero e proprio cartone di robottoni di terza generazione (anche se esteticamente ricordano più quelli di seconda, come Gundam e Patlabor, con un pizzico di Trider G7), ovvero quelli più adulti, spaventosi, inquietanti e con derive da thriller psicologico che ricordano Neon Genesis Evangelion e L’attacco dei giganti.

Non approfondiremo questo aspetto per essere no spoiler, vi basti sapere che da La rivolta, La zona oscura eredita alcuni elementi di quella mitologia espansa di Pacific Rim che privava jaeger e kaiju della loro purezza quasi “ariana” per creare ibridi biomeccanici e va oltre, suggerendo che come un kaiju può “crescere” in un esoscheletro jaeger e fondersi con lui, anche un umano potrebbe ibridarsi con un mostro, aprendo la strada a prospettive narrative da hard sci-fi postumana folli, estreme ed eccitanti. Tornando ai protagonisti, nel loro viaggio on the road si imbattono in vari personaggi: un gruppo di ribelli spietati che mirano a impadronirsi di Atlas; Mei, fanciulla bella, scontrosa e tosta con costume aderente e capelli colorati (l’immancabile sogno erotico degli otaku); un bimbo muto e misterioso ribattezzato “the boy”. Insieme si avventurano in una ricerca esteriore e fisica di risposte sul futuro dell’umanità e in una interiore: il drift porta ognuno di loro nei meandri della propria memoria, nei ricordi più traumatici, nelle rivelazioni più dolorose.

Per fortuna la serie stempera la pesantezza del registro ereditato da La rivolta con la comicità, tipica del film di Del Toro, grazie a Loa, la sardonica Ai che governa Atlas Destroyer e monitora le immersioni nel drift. La trama è molto più fitta e le svolte narrative molto più ambigue (c’è il rischio di un enorme salto della squalo mistico nel cliffhanger finale): tutto è meno lineare e limpido, non solo nella storia ma anche nella volontà dell’autore Craig Kyle (sceneggiatore Marvel) di smarcarsi dal manicheismo di Del Toro. Niente è più bianco o nero, nessuno è più tutto buono o tutto cattivo e i mostri possono essere umani quanto gli uomini mostruosi. Pacific Rim è molto più complesso, angosciante e subdolo del suo capostipite, ma non è affatto un difetto: appena sentirete le inconfondibili note della colonna sonora rockettara di Ramin Djawadi e Tom Morello del film (anche se cambia il compositore, ora è Brandon Campbell), vi sentirete di nuovo nell’avvincente universo creato da Del Toro.

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[Fonte Wired.it]