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sabato, Giu 20

Per dimenticare il dibattito su Montanelli, rileggiamo Curzio Malaparte



Da Wired.it :

L’Europa in preda a vecchi virus e l’America reazionaria, l’Italia della ripartenza e le posizioni scomode da cui raccontare la storia: se vogliamo liberarci della pesante eredità di Montanelli, iniziamo dal suo acerrimo “nemico” Malaparte

Il dibattito pubblico, e non solo in si è spostato dai temi epidemiologici a quelli sociali. E se in America e nel resto d’Europa i manifestanti hanno attaccato principalmente i simboli e le statue di leader, mercanti di schiavi e dubbi eroi patri – rei di aver colonizzato, sfruttato e massacrato le popolazioni di quello che un tempo si chiamava sgarbatamente il Terzo Mondo – in Italia le polemiche si sono concentrate su Indro Montanelli. 

Venerato come un maestro d’arte giornalistica da alcuni autori italiani, Montanelli è un personaggio dalla biografia piuttosto scomoda e dalle prese di posizione non sempre felici. Per giorni, critici, scrittori e giornalisti hanno danzato attorno alla sua statua imbrattata a Milano, difendendola o sostenendolo l’atto simbolico di sfregio. Montanelli non è certo l’unico personaggio scomodo del Novecento italiano dei quotidiani e dei libri. Per questo, questa settimana il nostro autore ideale è Curzio Malaparte, tra l’altro uno degli acerrimi nemici di Montanelli – si attaccarono reciprocamente – ma spesso non dissimile come temperamento. 

Non mi dispiace tanto di morire ancor giovane quanto piuttosto di morire prima di Montanelli, pare che disse con ironia Malaparte in punto di morte. Basterebbe scorrere la biografia molto curata e avvincente di Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, per capire la complessità del personaggio e riscattarlo da certi stereotipi e malelingue che lui stesso fomentò con il suo carattere.

Toscano maledetto proprio come Montanelli, nato Kurt Suckert (Curzio Malaparte è infatti nom de plume, in gioco con il Bonaparte), combatté nella Prima guerra mondiale, per poi successivamente sostenere il fascismo delle origini (o quello che si chiamava “di sinistra”) – alcuni dissero che partecipò alla marcia del 1922, sebbene non sia affatto provato – per poi però discostarsi dal ridicolizzato Mussolini e dal fascismo di stato, prima della fine della seconda guerra, e persino avvicinarsi al comunismo togliattiano poco prima di morire di tumore nel 1957. 

Giornalista, corrispondente di guerra, diplomatico, agente segreto, uomo di mondo, narcisista di professione e celebre per i suoi duelli e le sue querelle pubbliche, Malaparte è uno scrittore dal profilo scomodissimo, così come le sue opere, sebbene oggi sia considerato uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Le sue opere affrontano, lavorando sulla moralità e la depravazione della civilizzazione, i crinali ambigui della guerra e delle oppressioni. Per questo sarebbe utili per evitare facili prese di posizione, specialmente quando si guarda indietro nel tempo. 

Fa un certo effetto, in tempi pandemici, leggere ad esempio La pelle, uno dei suoi capolavori, che affronta il tema di una peste tutta metafisica e allegorica, quella instaurata dagli abomini della guerra e della fame, durante l’occupazione americana della Napoli del 1944. Il virus, che circola per le strade grottesche e mostruose di Napoli (la Napoli oggi da poco uscita dal lockdown), è quello del degrado fisico e morale di una civiltà che sta decadendo, in particolare quella europea. L’Italia rappresenta l’avanguardia di questa decadenza, di questa sconfitta, e in particolare i napoletani, il gioioso popolo vinto, poveri cristi sacrificati dalla Storia. 

Quella di Malaparte, in modo anche pieno di compassione, è una Napoli distrutta ma anche effigie di un mondo antico, una Pompei che non è mai stata sepolta dove i soldati afroamericani black – ma in Malaparte si trova anche la Parola-con-la-N impronunciabile oggi specie in questo periodo – vengono resi oggetto prezioso di scambio e schiavitù in un mercato volante e le prostitute si offrono in grande copia in mezzo a scene aberranti al limite del reale per i vicoli napoletani (si ricorda spesso il banchetto della Sirena) – mentre il Vesuvio, quasi una divinità mediterranea, impone la sua ira trasformandosi in un Kraken che sputa lava e fa tremare la terra, come realmente accadde. 

In questo romanzo, dove l’autore non ha paura a provocare, così come nel di poco precedente capolavoro Kaputt, Malaparte gioca con la sua voce di testimone in modo sornione e acuto assieme, presentandosi come personaggio (grande anticipatore della voga auto-finzionale) e stando quasi a metà tra le parti, interessato a studiare ogni faccia dell’assurdo: se ne La pelle instaura un dialogo quasi di amicizia con il colonnello Jack Hamilton, in Kaputt rischia di mostrare una certa empatia per i leader nazisti, partecipando a incontri e banchetti con loro in qualità di diplomatico e corrispondente di guerra. 

Ma Kaputt è un affresco visionario e storico insieme di un’Europa infettata dal nazismo, così come oggi si trova ancora ad affrontare focolai di ultra-destra e un certo ammiccamento verso l’area di Donald Trump, l’Europa mucchio di rottami delle persecuzioni antisemite (specie sul fronte polacco e ucraino) dove Hitler come un enorme nonsense irrazionale aveva conquistato le menti e la vecchia nobiltà europea si rivela inerme di fronte alle masse che acclamano il Fuhrer.

Il romanzo sembra il reportage in serie di un incubo dal quale l’Europa, e Malaparte con lei, fa fatica ad alzarsi. Accadrà così, c’è da chiedersi, anche con il post-pandemia? O l’Europa sfrutterà la disfatta per una nuova rinascita?

Seguendo la logica dell’incubo, Kaputt alterna visioni di guerra e degrado, che paiono prese da un quadro espressionista con tratti surrealisti, come il terribile e celebre capitolo Un paniere di ostriche su Ante Pavelic contenente “vecchi chili di occhi umani.” Pavelic è solo uno dei personaggi storici che Malaparte racconta e trasfigura, in mezzo non solo ai nazisti tedeschi la cui crudeltà è fatta di paura ai diplomatici come de Foxá, ai regnanti in esilio, ma anche i corpi morti della guerra: i cadaveri dei deportati ebrei in Polonia che si ammassano per ogni dove e franano sul console italiano a Jassy, e anche i tanti animali, dalle mute dei cani ai cavalli terribilmente ghiacciati rimasti nel lago Ladoga sorpresi dal vento gelido, e gli altri animali che danno il nome ad ogni sezione del romanzo. 

Se volessimo proseguire tra i tanti libri consigliabili e a volte poco disponibili nelle nostre librerie – tra i quali vorremmo rivedere la crudele ma perfetta suite Mamma morta – ci sarebbe, per capire la geniale ambiguità di Malaparte, la sua volontà di farci riflettere con acume le questioni politiche e culturali, da riprendere Technique du coup d’état, ovvero Tecnica del colpo di stato, oggi pubblicato da Adelphi. Libro di ingegneria politica pubblicato in francese negli anni trenta, portò a frequenti polemiche, osteggiato sia da destra che da sinistra e bruciato simbolicamente dai nazisti. Il saggio storico di Malaparte, con stile più cristallino rispetto ai romanzi successivi, attacca dal racconto della congiura di Catilina fino ad arrivare alle rivoluzioni del primo Novecento. 

Gli valse l’esilio sull’Isola di Lipari, questo perché fu mal visto dal regime per il ritratto dissacrante di Hitler: è un uomo debole che si rifugia nella brutalità per mascherare la sua mancanza di energia… Come tutti i dittatori, Hitler è guidato piuttosto dalle sue passioni che dalle sue idee. Utile anche per comprendere le velleità e le debolezze dei dittatori a noi coevi – “la dittatura non è soltanto una forma di governo, è la forma più completa di gelosia” scrive l’autore – anticipa il modo di raccontare dell’autore che si ritrova nei romanzi, quella sua grande capacità di soffermarsi sui personaggi storici e guardarli a tutto tondo, facendoli dialogare tra loro in modo universale. 

Sempre Adelphi di recente ha riportato due libri che completano forse il quadro editoriale di Malaparte. Il primo si lega in qualche modo a Tecnica del colpo di stato ed è il ritratto tra romanzo e reportage Il buonuomo Lenin dove Malaparte racconta la piccolezza borghese di Lenin, e smonta la grandezza e la novità, definendolo in un ritratto impietoso come un “uomo medio”, un “funzionario puntuale e zelante del disordine”, tutt’altro che un rivoluzionario che viene da Oriente come Gengis Khan, come invece Malaparte vede in Trotsky.

Lenin è nel libro di Malaparte un leader incapace persino di odiare – “L’odio non è in lui un sentimento: non è nemmeno un calcolo. È un’idea”, scrive – un rivoluzionario fake che al momento della rivoltà “si travestirà da operaio”. Sempre legato alla Russia e a quella che definisce come una nobiltà marxista è anche il romanzo “ritrovato” Il ballo al Kremlino, dove con una potenza simile agli affreschi di Kaputt, racconta per personaggi unici il mondo dei teatri e della società post-Rivoluzionaria degli anni Venti, tutt’altro che proletaria e ingrassata dal lusso della bella vita, dagli intrighi di società, e dai gran balli. Libro scomodo perché, dice l’autore, “la nobiltà mar­xista non tollera che si parli di lei, e delle sue cose, dei suoi fati.

Per ritornare da dove eravamo partiti, cioè nei territori scomodi di Montanelli, vale la pena menzionare il Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, che (ri)pubblicato da Passigli raccoglie i tredici articoli scritti per il Corriere nel 1939 di un Malaparte che attraversò l’Etiopia al seguito del Battaglione Eritreo, proprio come aveva fatto in precedenza Montanelli.

Benché in anni di regime fascista e fatto proprio per redimersi di fronte al partito, il viaggio africano in questi articoli di Malaparte si fa riflessione più ampia e non del tutto celebrativa del colonialismo italiano di un’Africa bianca: emerge infatti, nelle sue peregrinazioni fuori dai percorsi predisposti, un interesse e un amore per un’Africa ammaliante e multicolore, che pare aver influenzato la complessità delle sue opere successive, in primis i romanzi di questo grande genio provocatore del Novecento italiano. 

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[Fonte Wired.it]