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lunedì, Nov 18

Perché abolire il canone Rai (senza pensare al futuro) è una sciocchezza


Una proposta del M5S vuole equipararla alle tv private. Ma senza un piano sulla privatizzazione ogni proposta sul canone non ha senso e anzi danneggia il mercato pubblicitario legando ancora di più il gruppo al governo di turno

(Foto Fabrizio Corradetti/LaPresse)

Il problema non è mai abolire. È ricostruire. In qualche misura, la vicenda che stiamo per raccontare ripercorre ciò che sta accadendo con il taglio del numero dei parlamentari: è stato approvato poche settimane fa ma nulla di quanto occorrerebbe per renderla una scelta sensata e coerente, come una nuova legge elettorale, sembra essere in cantiere nel dibattito parlamentare. L’abolizione del canone Rai, certo una delle tasse più detestate dagli italiani con un elevato tasso di evasione, rientra nel medesimo schema: una proposta di legge depositata alla Camera dalla deputata 5 stelle Maria Laura Paxia punterebbe infatti a eliminarlo, finanziando il servizio pubblico con le entrate pubblicitarie – eliminando dunque gli attuali limiti alla raccolta in un mercato già asfittico – e drenando risorse da altre tasse, con trasferimenti dal ministero che non si capisce in fondo in che modo alleggerirebbero il bilancio pubblico. 

L’obiettivo è di equiparare la Rai alle televisioni private – si legge sulla Stampaniente canone ma accesso libero alla pubblicità senza i limiti in vigore oggi. Ritengo giusto che l’azienda pubblica punti sulla qualità del servizio non potendo più finanziare i maxi stipendi con i soldi dei cittadini”. Insomma l’approccio è sempre quello forcaiolo di qualche anno fa, che parte dalle polemiche sui maxistipendi di pochi professionisti (che si potrebbe invece scegliere di colpire in modo chirurgico) e passa dalla necessità di sventolare uno scalpo all’opinione pubblica smantellando una delle ricchezze culturali del paese senza nulla da proporre per il dopo. Equiparare la Rai alle televisioni private, infatti, non significa nulla. In quel gruppo, che ha costruito un bel pezzo dell’identità italiana, lavorano 13mila persone e di tavoli di crisi ce ne sono già troppi aperti in questo momento, in giro per l’Italia. Bisogna capire come ce la fai diventare, una tv privata.

La mia proposta di legge modificherebbe anche il finanziamento del servizio pubblico andando a sostituire il canone con un gettito, che possa consentire alla Rai di avere un bilancio e di lavorare bene – aggiunge la parlamentare – finanziamento gestito dal Mise e dal ministero delle Economie e Finanze”. Non ci sarebbe più il canone, insomma, ma il “gettito”. Quindi da una parte verrebbe eliminato il balzello da 90 euro, già sforbiciato da Renzi e che oggi si paga in gran parte con la bolletta dell’elettricità o autonomamente in casi specifici. Dall’altra si dovrebbero recuperare i fondi persi con più pubblicità e con ulteriori trasferimenti pubblici. Perché per equiparare la Rai alle reti commerciali dovresti privatizzarla, non basta eliminare il canone. Finché non lo fai, il 99,56% di viale Mazzini rimane del ministero dell’Economia. Quindi sostenere di eliminare il canone non elimina il prelievo dalle casse pubbliche ma inganna solo i cittadini: in qualche modo la macchina va fatta funzionare. Perché, per quanto società di diritto privato, è una macchina pubblica. A cui occorrerà destinare risorse pubbliche.

Anche Francesco Boccia, ministro degli Affari regionali – per capirci, quello delle web tax ricorrenti – definisce il canone “anacronistico” in epoca digitale. Con buona pace del fatto che la Rai abbia intrapreso una lunga e costosa transizione digitale di cui bisognerà valutare i risultati nel medio periodo. Michele Anzaldi di Italia Viva e membro della commissione di Vigilanza ha invece lanciato una petizione su Change.org (ma perché? Non potrebbe farne una proposta parlamentare invece che lanciare raccolte di firme su una piattaforma privata americana?) per chiedere il taglio del canone.

Anche i più acerrimi nemici l’avranno capito. Togliere il canone di palo in frasca, senza porsi il tema di un’eventuale parziale privatizzazione e della governance successiva dell’azienda, oltre che della perdita secca sotto il profilo culturale, significherebbe in sostanza tre cose. Primo: ridurre ulteriormente la torta del mercato pubblicitario, radiotelevisivo e non solo, lanciando un altro soggetto nel già irrespirabile stagno della raccolta. Secondo: legare ancora più in profondità, più di quanto non sia oggi, l’azienda al governo di turno, impiccandola ai finanziamenti ministeriali e togliendole l’ossigeno del canone, che già ora non arriva del tutto nelle casse di viale Mazzini. Terzo: peccare d’irresponsabilità tagliando risorse a un gruppo che impiega 13mila persone e che certo si può e forse si deve immaginare di ristrutturare ma in modo progressivo, presentandosi pronti, con i conti in ordine e un organico più snello (oltre che purgando l’azienda da chi non lavora e da raccomandati), a un eventuale appuntamento col mercato. Il resto è fiato sprecato.

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