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martedì, Ago 20

Perché alcune parole ci restano sulla punta della lingua?


Un fenomeno molto curioso, un inghippo linguistico che rivela parte del funzionamento del linguaggio umano, forse la più raffinata facoltà di cui disponiamo

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L’animale più lento al mondo… Massì, dai, quello che c’è anche in Zootropolis… P, p, di. Cavolo, ce l’ho sulla punta della lingua!”. Sulla punta della lingua, sì, ma quel dannato bradipo non ne vuole sapere di uscire dalla bocca. Un fenomeno linguistico molto curioso questo, che chiama in causa il modo in cui il linguaggio viene elaborato a livello cerebrale.

Sì, perché da una prospettiva neurolinguistica il linguaggio è l’esito di un reticolo di circuiti elettrici che si mettono in funzione. Sintetizzando e semplificando il processo, potremmo dire innanzitutto che occorre elaborare il concetto a livello cerebrale. Attingiamo in questa fase a “serbatoi di categorie di parole” che contengono nomi, verbi, aggettivi e compagnia bella. Poi però occorre richiamare le varie informazioni fonetiche (cioè sul suono) prima di produrre fisicamente, con aria e movimenti di vari organi fra cui la lingua, parole e frasi.

Quindi per parlare non basta conoscere le informazioni sul significato di una parola. No, dobbiamo averne immagazzinato anche quelle sulla struttura morfologica (quelle che dovremmo aver imparato a scuola con la grammatica: cioè se sono nomi, verbi, parole semplici, composte, eccetera); e poi servono anche informazioni sulle caratteristiche fonetiche (ad esempio dove cade l’accento). Come è facile intuire, si tratta di un sacco di dati; non per niente il linguaggio è una delle facoltà più raffinate e impegnative dell’uomo.

Ecco, può succedere che fra le fasi della produzione linguistica si inceppi qualcosina e noi restiamo senza la parola desiderata. “Non si tratta di un lapsus in questo caso” specifica la neurolinguista Maria Elena Favilla. “In inglese questi fenomeni sono chiamati Tot, tip-of-the-tongue. È la sensazione che normalmente descriviamo anche in italiano quando diciamo ce l’ho sulla punta della lingua”.

Un inghippo linguistico – descritto già a fine Ottocento da William James, fratello dello scrittore Henry – che riguarda spesso anche i nomi propri. Momentaneamente ci dimentichiamo così il cognome di un compagno delle elementari o di un film visto molte volte. “In queste situazioni non diciamo niente perché non riusciamo a richiamare i suoni di quella parola. E questo anche se abbiamo tutto in mente di quel concetto o quella persona”.

È sorprendente a pensarci bene: sappiamo descrivere il concetto con precisione, ma ci manca la parola per trasmetterlo. E così andiamo in bestia, perché sappiamo di averla lì a disposizione a un millimetro dalla nostra lingua. Eppure niente. Iniziamo quindi con una serie di speculazioni che talvolta non hanno molto a che vedere con la parola che cerchiamo. “Sappiamo esattamente che esiste quella parola specifica, ne conosciamo il significato. Ricordiamo che è lunga, corta, inizia con una p; abbiamo insomma anche una serie di informazioni sulla struttura dei suoni della parola, che tuttavia non vengono”.

I Tot aumentano con l’avanzare dell’età. Ma attenzione perché non è s14olo un problema di memoria. “L’ipotesi è che in questi casi non è stata persa la parola, ma l’accesso alla stringa di suoni che servono per produrla” continua Favilla.

Al tempo stesso non bisogna pensare che si sia perso il controllo sull’articolazione dei suoni. No, siamo a un momento precedente nel processo di creazione del linguaggio. “È un problema che è ancora a livello di elaborazione e non di produzione linguistica intesa come articolazione di suoni.  Riguarda, infatti, la selezione dei suoni ed è separata dalla fase di pianificazione e attività motoria in cui il cervello coordina i moltissimi muscoli coinvolti nella pronuncia dei suoni selezionati. Quando non si riesce a pronunciare fisicamente i suoni può esserci invece un malfunzionamento nel controllo nella muscolatura”.

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