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Perché cento anni fa la mummia di Tutankhamon fu decapitata e come è cambiato oggi l’approccio ai resti umani

by | Nov 22, 2025 | Tecnologia


Un secolo fa veniva portata alla luce la mummia di Tutankhamon. Era novembre del 1925 e l’egittologo Howard Carter e la sua squadra di esperti stavano per scoperchiare i sarcofagi che per migliaia di anni avevano protetto i resti mortali di quello che oggi è probabilmente il faraone più famoso al mondo, ma di cui in realtà sappiamo molto poco. Un evento epocale, i cui dettagli, però, visti con gli occhi di oggi, possono apparire violenti, anche raccapriccianti. “Le decisioni che furono prese per liberare il corpo del faraone vanno però contestualizzate – spiega Valentina Santini, egittologa del Center for Ancient Mediterranean and near Eastern Studies (Camnes) – All’epoca c’era una diversa concezione delle mummie, con una forte spinta a carpire più informazioni possibili, anche a costo di farle letteralmente a pezzi”.

Tutankhamon “imprigionato”

Sebbene la tomba del faraone bambino, identificata con la sigla KV62, sia stata scoperta dall’egittologo Howard Carter nel 1922, c’è voluto qualche anno prima che i tre sarcofagi (quattro, se consideriamo anche quello più esterno di quarzite) che hanno protetto le spoglie del sovrano venissero aperti. Già dal sarcofago intermedio, quello in legno dorato e adornato di tesserine colorate, però, Carter cominciò a notare qualcosa di strano, di mai visto. In alcuni punti, infatti, il sarcofago era macchiato di nero e incollato alla cassa più grande in cui era contenuto. Il problema fu davvero evidente tolto il coperchio: il sarcofago interno in oro, infatti, era quasi del tutto nero, ricoperto da una specie di melassa solidificata. “Questa sorta di melassa altro non era che l’insieme di unguenti e resine che gli Antichi Egizi utilizzavano sia a scopo rituale sia per preservare meglio i corpi dei defunti – precisa Santini – Sostanze che evidentemente erano state versate con molta abbondanza durante il funerale di Tutankhamon”. Anche solo raggiungere la mummia di Tutankhamon, dunque, comportò delle difficoltà. Ma per studiare il corpo all’epoca bisognava andare oltre: i resti del faraone andavano estratti dal sarcofago.

L’estrazione di Tutankhamon

La situazione in cui Carter e il suo team si trovavano era inedita, e, benché la squadra fosse composta da esperti qualificati in diverse discipline, ci vollero alcuni tentativi per arrivare al successo. In un primo momento Carter fece portare il sarcofago con la mummia di Tutankhamon all’esterno della tomba con l’idea di lasciarlo esposto per diverse ore al sole dell’Egitto, così che il calore (che raggiunse i 65°C) sciogliesse quella specie di melassa. Un primo approccio fallimentare, a cui ne seguì uno più complesso. “La cassa venne posizionata ‘a faccia in giù’ su dei cavalletti, l’esterno fu protetto con stoffe che venivano mantenute bagnate e coperta ulteriormente con lastre di zinco per proteggerla dal calore sprigionato da un particolare tipo di lampada che può raggiungere temperature attorno ai 500°C – spiega Santini – Il metodo risultò efficace e il corpo effettivamente si staccò dal sarcofago”.

L’autopsia e la decapitazione

I resti di Tutankhamon a quel punto erano disponibili per le indagini anatomiche che ai tempi avvenivano togliendo le bende strato per strato il corpo mummificato. In questo caso specifico, tuttavia, il lavoro era reso ulteriormente complesso dalle resine di cui le bende erano intrise. Pertanto la squadra archeologica optò per un approccio più aggressivo. Dai due anatomopatologi del team di Carter (Douglas Erith Derry e Saleh Bey Hamdi) venne effettuata un’autopsia, durante cui decisero di smembrare la salma del faraone. “Si praticò un taglio per separare gambe e bacino e altri a livello di spalle, gomiti e polsi. La testa venne recisa dal corpo per liberare la bellissima maschera funeraria che celava il volto di Tutankhamon. Venne anche fatta un’incisione tra la mascella e la gola per permettere l’analisi dei denti”, spiega l’egittologa. “Può sembrare macabro, ma nei primi decenni del Novecento questo tipo di approccio poteva essere considerato la prassi. Sono davvero pochi gli esempi lungimiranti, in cui si decise di lasciare intatti i resti umani in attesa di trovare metodi di indagine meno invasivi. La priorità, infatti, era raccogliere quante più informazioni possibili dal ritrovamento, rimuovendo gli oggetti posizionati tra le bende sopra il corpo o che adornavano il corpo stesso, prelevando campioni dalle ossa per risalire, per esempio, all’età, allo stato di salute, alle cause della morte”.

Luci e ombre dell’eredità di Carter

Oggi come oggi la versione non edulcorata delle operazioni effettuate attorno e sul corpo del faraone bambino nel 1925 ci appare brutale. Forse anche lo stesso Carter aveva avuto degli scrupoli, visto che, come dice l’egittologa Joyce Tyldesley a The Conversation, questi particolari sono assenti sia nel resoconto della scoperta per il pubblico sia nei registri di scavo che sono stati da poco resi disponibili online dal Griffith Institute dell’Università di Oxford. E le fotografie della testa recisa dal corpo e “impalata” quasi a farla sembrare una statua non sono certo le più utilizzate e note.

“Ci sono comunque dei lati positivi nel lavoro di Carter, che aveva dalla sua il fatto di essere stato molto metodico, meticoloso, quasi pignolo”, aggiunge Santini. “Mise insieme una squadra di diversi professionisti qualificati, ognuno con un compito preciso e che hanno prodotto tantissima documentazione – una pratica non scontata per il periodo storico e che ha costituito un esempio importante per l’archeologia. Basti pensare al materiale fotografico realizzato da Harry Burton, che ha immortalato anche tutti i passaggi dell’autopsia della mummia di Tutankhamon, ai disegni realizzati dallo stesso Carter e ai report redatti da Alfred Lucas, il chimico incaricato della conservazione dei reperti.

Un approccio moderno ai resti umani

“Nel tempo l’attenzione nei confronti dei resti umani è cresciuta moltissimo, fino ad esplodere in senso positivo negli ultimi venti anni”, sottolinea Santini. “Oggi sentiamo la necessità di trattare i corpi dei defunti come individui, tanto che nella comunità archeologica sono emersi molti dubbi non solo sulle modalità degli scavi ma anche sulle collezioni museali. In altre parole ci interroghiamo se ed eventualmente in che modo esporre le mummie nei nostri musei”. Un cambiamento profondo, dunque, andato di pari passo, e alimentato, con i progressi scientifici e tecnologici che adesso consentono di ricavare informazioni senza intaccare i corpi, tanto da far pensare che se Carter avesse avuto i mezzi odierni avrebbe fatto scelte diverse. “Non si tolgono più le bende alle mummie fisicamente, ma grazie a radiografie, tac, risonanze e altri strumenti si può fare virtualmente: possiamo vedere cosa c’è sotto ogni strato, lasciando i reperti in loco, potendo distinguere la posizione, se si tratta di gioielli o amuleti”, conclude Valentina Santini. “Non è ancora come se li potessimo toccare, ma ci arriveremo. E per adesso va bene così”.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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