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mercoledì, Dic 30

Perché chiamare Agitu Gudeta “esempio di integrazione” è sbagliato



Da Wired.it :

L’assassinio dell’imprenditrice etiope che viveva a Trento ha alimentato la solita retorica pigra dell’eccezione alla regola. È il riflesso condizionato di un paese in cui l’accoglienza sembra dover funzionare a senso unico

Il titolo del Primato nazionale (“Agitu Gudeta, niente razzismo. A ucciderla a martellate è stato il suo dipendente africano”) non ci serviva particolarmente, ma torna utile per confermarci il riflesso condizionato xenofobo e stereotipato che riserviamo agli stranieri – e ad alcune categorie in particolare – anche a latitudini assai meno indecorose del neofascismo militante.

Agitu Ideo Gudeta era tornata in Italia – dove aveva studiato sociologia a Trento – dall’Etiopia dieci anni fa, ottenendo lo status di rifugiata e lanciando un’attività di allevamento di capre che dopo tanti anni ancora stenta, nel modo in cui oggi sono raccontate la sua storia e la sua tragica morte, a darle l’unica definizione che le spetta: imprenditrice o allevatrice. Perché sui giornali e media italiani al momento la 43enne non sembra poter sfuggire al suo ruolo, specie ora che un assassinio l’ha cristallizzato per sempre, di simbolo” o “modello d’integrazione”.

Un ruolo, quasi una caratterizzazione, a cui attingiamo quasi automaticamente anche quando di xenofobia non ce n’è traccia e il resoconto è in buona fede. Perché è l’altro piatto della bilancia, la banalizzazione prêt-à-porter dell’integrazione come percorso a senso unico, tutto sulle spalle di chi deve costruire la sua nuova vita e non, semmai, a doppio senso tra chi accoglie e chi viene accolto. Buona parte delle responsabilità dovrebbe infatti assumersele una società che con le giuste garanzie voglia dimostrarsi aperta, trasformando il caso eccezionale nella normalità, che era quella che Agitu Gudeta cercava di mettere in pratica. Persone come lei hanno il diritto di non essere raccontati sempre e solo come l’eroe che restituisce il portafoglio in caserma, l’eccezione alla regola che mette in piedi una piccola azienda di successo o lo sportivo di successo che tuttavia è bene non si esprima su ciò che non lo riguarda ma si limiti a farci divertire (e se fa il bravo un passaporto magari glielo diamo pure).

Con buona pace di generazioni di bandierini assortiti e della loro nauseante propaganda reazionaria, il fatto che a uccidere l’imprenditrice nata ad Addis Abeba possa (forse) essere stato un suo collaboratore ghanese non cambia nulla di questa narrazione tossica e sfigurata, di così corto respiro, di cui invece dovremmo farci carico. Anzi, se possibile chiude e sigilla in modo velenoso la storia triste e pigra dell’immigrata che ce l’aveva fatta, che l’Italia in fondo aveva accolto ma che sarebbe morta per mano di un immigrato come lei. Dandoci una mano a sciacquarci la coscienza: in fondo, che colpa abbiamo noi? Lo vedete, scrivono alcuni, “è violenza d’importazione”.

Eppure Agitu Ideo Gudeta, l’icona di integrazione che in molti casi sulle prime pagine dei giornali e online in queste ore non è neanche degna di un nome e un cognome, riceveva e subiva da anni minacce, aggressioni e insulti razzisti. C’era stata una condanna a 9 mesi per lesioni – ma non per stalking finalizzato alla discriminazione razziale, contrariamente a quanto aveva chiesto il pm – di un uomo del posto, Frassilongo in Trentino, che ovviamente aveva sempre liquidato la questione come un problema fra vicini. “Il razzismo non c’entra” (tramite il suo avvocato quella persona è intervenuta anche ieri: “Una tragedia, non c’è giustificazione per quanto accaduto, nonostante la mia personale esperienza”. Proprio non ce la faceva a tacere).

Dietro quelle etichette, quelle medagliette appuntate sul petto – “profuga ambientalista”, “simbolo di integrazione”, il grottesco “regina delle capre“, la “pastora bio” – si nascondono tutti i limiti di un sistema che funziona appunto in un solo senso, di un’operazione culturale sempre in bilico fra via crucis individuale e percorso comunitario. Singolare che proprio in queste ore, tanto per recuperare uno dei molti casi di discriminazione, la Corte d’appello di Milano abbia respinto l’appello presentato dal comune di Lodi contro un’ordinanza del tribunale del capoluogo lombardo che definiva discriminatorio il regolamento che proibiva l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi comunali, come la mensa scolastica e lo scuolabus, se non dietro presentazione di ulteriori documentazioni spesso difficili da ottenere nei paesi d’origine.

Il fallimento di quel sistema sta in tante piccole-grandi storie come questa. Mentre il trattamento riservato a quei pochi che invece ce la fanno, che magari vengono invitati al Quirinale per prendere davvero quella medaglietta – pur affogati nella retorica che spesso rischia di coprirne anche il nome, il cognome, il mestiere – non fa che confermarlo in controluce: in Italia valgono sono le eccezioni, perché di regole virtuose all’orizzonte non se ne vedono.

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[Fonte Wired.it]