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martedì, Apr 21

Perché dobbiamo provare a parlare anche di ciò che non è coronavirus



Da Wired.it :

Notizie su dati, analisi, studi e opinioni più o meno fondati ci tengono in ostaggio da due mesi. col risultato paradossale di infiacchire l’attenzione generale. Ma fuori c’è un pianeta che continua a girare e che va raccontato

(Foto: Tiziana Fabi/Afp via Getty Images)

Ci siamo stufati delle notizie sul coronavirus e tutto quello che gira intorno alla pandemia? Forse sì, almeno per come ci sono state servite finora, diciamo negli ultimi due mesi abbondanti, dalle prime zone rosse regionali. Una pandemia globale di scala epocale non poteva che inghiottire qualsiasi altro tema, spunto, argomento, quasi nell’illusione che il mondo abbia chiuso per virus: la medicalizzazione dell’emergenza non ha segnato solo le strategie di gestione ma anche le agende dell’informazione, che hanno trasformato epidemiologi e virologi nella nuova generazione di influencer. Peccato che il mondo non abbia chiuso per virus. C’è molto da raccontare e non lo stiamo facendo abbastanza.

Stando a una ricerca del NiemanLab, l’istituto giornalistico dell’università di Harvard, il 9 marzo scorso una pagina online ogni quattro consultata dall’utenza statunitense riguardava la pandemia di coronavirus, generando in una settimana l’attenzione che il possibile impeachment a Donald Trump aveva prodotto in un mese. Dopo un picco fra il 12 e il 13 del mese l’attenzione è diminuita verso la fine di marzo, continuando a scemare nella prima settimana di aprile, fino a tornare in questi giorni a livelli considerati “normali”. “Sembrerebbe” – scrive Wired Uk – “che si sia fatta strada una news fatigue”, cioè un affaticamento da notizie.

Uno stress, un esaurimento, una sovrabbondanza da bombardamento di dati, analisi, studi più o meno fondati. E ancora opinioni con cadenze assillanti, presagi su nuove normalità costruiti su elementi fragili, colpi di coda polemici dalla durata di un tampone. Sembra irragionevole eppure questo menu informativo, veicolato in queste forme e a questi ritmi ormai da oltre due mesi, potrebbe averci stancato a tal punto da spingerci alla fuga, da aver allentato l’attenzione su un evento catastrofico destinato ai libri di storia. E sebbene la cosiddetta news fatigue non sia un fenomeno nuovo – il Reuters Institute lo ha provato perfino con la Brexit, spiegando che a un certo punto le persone hanno attivamente iniziato a scartare le notizie sul tema – con una pandemia di questo tipo rischia di moltiplicare i pericoli. Perché un’opinione pubblica stressata da tanto scenario e poca prospettiva e tirata per la giacchetta a ogni paper finito in rete è anche meno informata sulle misure da seguire per contenere il contagio nelle settimane di ripresa. Dopo aver parlato a lungo di sensibilizzazione, finiamo col desensibilizzarci.

Ci sono studi in corso sugli effetti psicologici legati a questa crisi, per cui è troppo presto per parlarne. Ma secondo l’Organizzazione mondiale della sanità c’è una stretta relazione fra la sovrabbondanza di consumo di news e un senso generale di ansia diffusa. Così la bersagliatissima istituzione sanitaria sovranazionale, mentre da una parte si produce in operazioni di contrasto alla disinformazione, dall’altra suggerisce di evitare le notizie, se ci stressano troppo. Eccessivi aggiornamenti su un unico argomento – in particolare sul tema che sta segnando le nostre esistenze – sembrano dunque partorire un sentimento di sconforto perché, come in un effetto matrioska, ci danno l’idea di non avere alcun mezzo per influenzare il corso degli eventi.

Non solo: il riprodursi di imprecisioni, mezze bufale, slanci di ottimismo irragionevole e pessimismo leopardiano infiacchiscono la fiducia nelle notizie e in chi le produce. Perché col passare del tempo i toni diventano sempre più superficiali, sensazionalistici e inaccurati. Purtroppo alcune testate, anche in ne hanno dato prova negli ultimi giorni. Fino alla spaccatura: secondo Richard Bentall, psicologo clinico dell’università di Sheffield interpellato da Wired Uk, le persone tendono infatti a dividersi fra quelle che tengono costantemente ogni elemento sotto controllo sull’onda dell’angoscia e quelle che invece rimuovono tutto, precipitando in una specie di ottundimento. Esattamente lo scenario che non ci serve, se vogliamo affrontare in modo maturo la famosa fase 2.

Come mitigare questo fenomeno? La prima mossa obbligata dovrebbe essere quella di cancellare il rumore di fondo. Bando totale alle news su studi infondati che sollevano speranze a vuoto, massima attenzione per quelli non ancora sottoposti a revisione, maggiore cura scientifica sulla tipologia di contenuti e sulle personalità che si esprimono al riguardo. L’opinione di tutti è rispettabile, l’evidenza e la rilevanza che si dà alle parole dell’uno o dell’altro è tuttavia una specifica responsabilità giornalistica. E non è un discorso di lauree o specializzazioni, ma di contenuto e sensibilità. Non il burionismo, insomma, ma neanche il cretinismo.

Secondo: bisogna tornare ad allargare lo sguardo. Bisogna farlo per un’urgenza d’igiene mentale. Dalle crisi dei migranti alle guerre irrisolte, dalle scoperte scientifiche in altri ambiti ai pezzi di mondo che ancora vivono o tornano a vivere, c’è un pianeta che continua a girare e che dev’essere raccontato. Al contrario i giornali hanno tagliato le pagine e ridotto al minimo la copertura di altri fatti e scoperte preferendo esitare un po’ troppo sui lati melodrammatici dell’emergenza, i siti hanno sviscerato il tema in centinaia di modi e spunti regalando spazio a ogni sciocchezza, le tv hanno riorganizzato i palinsesti declinandosi in assoluta chiave Covid-19.

Tutto questo è avvenuto nelle ultime settimane e probabilmente era inevitabile. Ma forse è il momento di provare almeno a immaginare un dietrofront, interrompere l’assedio sconclusionato ai nostri nervi e passare da un paradigma di spietata copertura a tappeto a uno schema con meno ingredienti drammaturgici e più lucidità per affrontare il futuro. Anche a costo di cambiare argomento.

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[Fonte Wired.it]