Seleziona una pagina
lunedì, Set 02

Perché il Pd è disposto a perdere la dignità con Beppe Grillo?


Abbiamo assistito a grandi aperture dei dirigenti dem al video in cui il comico invita il Pd a cogliere il “momento storico”. “Mai dire mai”, ha detto Zingaretti: ma in gioco c’è la credibilità di un partito

Il momento storico”, che riecheggia – non facesse sorridere – qualcos’altro di storico, cioè il peraltro sfortunato compromesso di fine anni Settanta fra Dc e Pci. Poi il solito elenco di caotiche priorità, dalla mobilità alle materie prime, fino alla crescita. “Dobbiamo riprogettare tutto”, dice Beppe Grillo nell’ultimo video pubblicato sul suo blog, da tempo sganciato da quello del Movimento 5 stelle di cui resta “garante” ma, in fondo, vera anima politica. Il fantasista, il solo a scaldare con la sua inconcludente ma appassionante mescolanza di geopolitica, energia, provocazione, umorismo. Una tirata di poco più di sei minuti in cui, nel mezzo dei suoi soliti e scoppiettanti interessi, il comico si rilancia al centro del dibattito politico e tira per la giacca il Pd. Che, a dirla tutta, non vedeva proprio l’ora di farsi tirare.

Un intervento chiaramente orientato a scuotere la fangosa trattativa fra pentastellati e dem, incastrati da una settimana sul ruolo di Luigi Di Maio e su un tira e molla molto triste sintetizzato da Grillo con: “Ci abbrutiamo con le scalette, il posto, i 10 punti, i 20 punti”. Cioè su programmi che non sono programmi. Da una parte e dall’altra: tanto per dire, non è davvero chiaro in che modo il Pd proponga di neutralizzare le clausole di salvaguardia che porterebbero all’aumento delle aliquote Iva. Poi l’appello “al Pd, alla base dei ragazzi del Pd”: “È il vostro momento, abbiamo un’occasione unica, cerchiamo di compattare i pensieri, di sognare a 10 anni, una piccola visione. Abbiamo un’immensa offerta di tecnologia. La politica deve scegliere che strada prendere”.

Basta qualche minuto di toni per così dire concilianti per aprire alla velocità della luce il capiente vaso di Pandora delle sindromi e delle nevrosi del Pd. Prima Dario Franceschini, uno degli ultra-trattativisti, che parla su Twitter di un “Grillo convincente” sebbene quella clip non avrebbe convinto neanche in un reality show di aspiranti stand up comedian; poi, peggio, il segretario Zingaretti, che in un tweet scrive: “Caro Beppe Grillo, mai dire mai nella vita. Cambiamo tutto e rispettiamoci gli uni con gli altri”. Prego?

Mai dire mai? Tutto troppo veloce, troppo imbarazzante rispetto a quanto accaduto in questi anni: si tratta, nel caso migliore, di posizioni di disponibilità che spiazzano non solo gli elettori, ma anche i fugaci simpatizzanti. Umilianti genuflessioni le ha definite il neo fuoriuscito Carlo Calenda. L’ex ministro ha ragione: il messaggio che sta passando in questi giorni non è di un Movimento 5 stelle alle corde che deve trovare nel Pd un alleato e dunque scendere a patti sui nomi (certo: non c’è politica senza nomi che la incarnino) e sulle scelte, a partire dall’abiura sulle oscene politiche sull’immigrazione. Pare quasi, al contrario, che siano i dem quelli disponibili a tutto pur di chiudere. Le pressioni sono molte, e aprendo la trattativa Zingaretti ha senz’altro scelto di salvare il partito dalla scissione dei gruppi parlamentari renziani. Ma a tutto c’è un limite.

Una posizione, quella del Pd, che sfiora infatti una crisi di dignità. Basta davvero una clip del comico genovese per appianare ogni contrasto e sdraiarsi in un “mai dire mai”? Con uno che ti mandava a quel paese fino a ieri, che ti chiamava “pdmenoelle” e che anche quando ha avuto parole morbide per il centrosinistra – molto raramente, è noto – si è sempre rivolto al suo popolo (pure definito nel 2015 come composto da “ex broker o ex banda della Magliana”) e mai alla sua dirigenza?

Davvero l’ascendente di Beppe Grillo sul centrosinistra è così duro a morire? In parte si capisce: il profilo di Grillo, chissà se vero o presunto, è apparso fino al 2009 come quello di un deluso di sinistra, come si sentiva già dal 2001. Basti pensare ai suoi continui e provocatori tentativi di penetrare il Pd – chi si ricorda la rimbalzata iscrizione del 2009, propedeutica per candidarsi alle primarie? – e alle pressioni su Romano Prodi. Eppure nel frattempo c’erano già stati i due Vaffa Day, che più della fondazione del M5s avrebbero tenuto a battesimo il sentimento anti-casta che avrebbe travolto non tanto le rendite di posizione, i privilegi indebiti e la corruzione (d’altronde estesissimi ed endemici all’apparato di stato) ma i principi di competenza e di impegno. Una ferita che impiegherà molto tempo a cicatrizzarsi.

Insomma, in queste ore il Pd sta pericolosamente giocando con quel che rimane della sua dignità e della sua credibilità non solo sull’elettorato più fedele ma su quello di area, quello cioè che entra ed esce dal perimetro dem, che vota e magari la volta dopo non vota, ma che ovviamente non può accettare il surrealismo del governo Conte bis e l’operazione di salvataggio delle sorti politiche di Luigi Di Maio. E soprattutto non si immagina un elettore capace di passare oltre questa sindrome di Stoccolma, una prostrazione di massa della già flaccida dirigenza democratica al cospetto di chi, in ordine sparso, ha definito quel partito “il preferito dalla camorra”, implicato in Mafia Capitale, politicamente complice “delle responsabilità, civili e penali, dei dirigenti e degli amministratori truffatori di povera gente” e molto, molto altro di infamante.

Le cose in politica cambiano, ed è normale e in un certo senso giusto che sia così, ma forse, nel caso del Pd, varrebbe la pena rimanere composti e dimostrare un po’ di serietà davanti alle sgangherate sirene grilline. Sempre che di serietà si sia capaci, ovviamente.

Potrebbe interessarti anche





Source link