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giovedì, Gen 02

Perché Jumanji: The Next Level ha perso l’anima del capitolo precedente


Nell’inseguire il successo del reboot la saga replica tutto senza l’anima che dava vita a quel film risultando in un film noioso e poco divertente

La saga di Jumanji non è una vera saga, perché cambia a ogni film. Ogni nuova iterazione usa il pretesto della parola nel titolo per film sempre diversi. Il che sarebbe anche cosa buona e giusta, se non fosse una corsa al ribasso. Quello originale, degli anni ‘90, era la storia di una strana avventura in famiglia e parlava di rapporti tra genitori e figli. Il reboot è stato un buon film che trasformava il gioco da tavola in un videogioco e usava alcuni elementi superficialmente videoludici per creare quello che in realtà è un film adolescenziale, uno in cui al centro di tutto c’è il contrasto tra il corpo e la personalità, anzi ancora meglio: un film sul corpo che cambia e come i rapporti ne siano influenzati. Era una storia di sfigati e popolari, di timidi e audaci in cui ognuno scopriva il vero sé in un corpo opposto al proprio dentro un regno lontano.

Questo Jumanji: The Next Level, non è il livello successivo di niente, è di nuovo un altro film adolescenziale ma senza la spinta del primo. Anche se tornano gli stessi personaggi (con in più i nonni Danny De Vito e Danny Glover) Jumanji: The Next Level perde totalmente di vista l’obiettivo, senza averne un altro nel mirino e diventa solo una continua ripetizione delle stesse scene. Nonostante i 4 amici tornino nuovamente a Jumanji (ma non negli stessi corpi di prima) non c’è più il medesimo fine di comprendere se stessi. Stavolta oltre all’uscire da Jumanji il film non sa proporre altro. Svuotato di un senso diventa una serie di scene d’azione senza personalità, affiancate con ben poca intelligenza e pure dirette con mano banale e noiosa.

E non che i nuovi personaggi portino qualcosa in più, sono un sollievo comico parallelo e mai centrale, sono condimento di una pietanza principale che non arriva mai. Stavolta il cambio di corpo non è un elemento destabilizzante ma uno già assimilato che non muta le interazioni tra i 4. I due anziani in corpi giovani non capiranno davvero se stessi, i ragazzi non cambieranno idee o vita per il fatto di essere passati (di nuovo) per questa avventura. Sarà per loro solo una storia autoconclusiva alla fine della quale tutti sono gli stessi di prima. In questi casi dovrebbe essere la fattura o il puro intrattenimento o addirittura la buona scrittura a salvare la baracca. Non è così. Non lo è minimamente.

Addirittura nel più incoerente dei paradossi i protagonisti, finiti di nuovo dentro Jumanji ma con corpi diversi dalla prima volta, quando rientreranno in possesso dei propri avatar originali si sentiranno finalmente a proprio agio, la sensazione opposta rispetto a quella che dava senso al primo film. Che senso ha cambiare corpo se nel nuovo corpo siamo a nostro agio esattamente come nel nostro? Che avanzamento porta al personaggio? In che crisi lo getta? Che curiosità scatena nello spettatore? Giusto quella di sapere come i 4 (alla fine diventati 7) arriveranno alla fine dell’avventura, ma come già detto è una sequela di scene d’azione senz’anima, che non portano avanti la trama ma si limitano a scuotere i personaggi.

Solo un momento in tutto il film desta l’attenzione dal torpore dato dall’abbondanza quantitativa e mai qualitativa dell’azione: il momento cioè in cui uno dei personaggi decide di rimanere in Jumanji, nel corpo che ospita (il più strano di tutti). È una scelta fuori da ogni canone per quel che il film ha impostato, perché Jumanji ha senso se è un posto da cui si vuole fuggire non uno in cui si vuole rimanere (quello sarebbe Narnia). Quella scelta ha un sapore assurdo, kitsch e quasi camp, tutte caratteristiche che danno personalità a questa stonatura, spostando per pochissimi minuti l’asse del film nel territorio gender free o gay o quel che è (se volontariamente o involontariamente non è dato saperlo). È proprio un secondo e bisogna essere certi di essere svegli per non perderselo.

Che tutto questo poi riesca a sprecare il carisma di Dwayne Johnson, la prontezza e abilità di diventare maschera di Jack Black (il vero motore del primo film) e le incursioni surreali di Danny De Vito, oltre all’umorismo di Kevin Hart è quasi degno di stima per quanto è difficile. Solo Awkwafina, ormai dotata di una consolidata carriera da attrice accanto a quella principale da rapper, sembra voler recitare davvero, creare un personaggio, dargli espressioni uniche e impegnarsi. Che è tutto dire.

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