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martedì, Ott 29

Perché la carta d’identità per i profili social è una proposta pericolosa


Marattin, di Italia viva, annuncia una proposta di legge. Eppure continua a sfuggire che il problema è aggiungere tutele e non rimuoverle, definire eccezioni sulla base di principi condivisi e non lanciare crociate quotidiane

Luigi Marattin (foto: Fabio Cimaglia/LaPresse)

Rispondere istintivamente, per replicare all’ennesima slavina di orrore social su questo o quel personaggio (stavolta è il caso della senatrice a vita Liliana Segre, la scorsa settimana quello della senatrice dem Monica Cirinnà), rischia di non portarci molto lontano. E di restringere, anziché allargare, il campo dei diritti fondamentali nell’ambito digitale. Proprio mentre pensiamo di difenderci, ci costruiamo intorno un fossato che potrebbe essere difficile da attraversare.

L’ultima proposta per tentare di contrastare l’odio online è quella dei renziani di Italia viva: chiunque dovrebbe essere obbligato a depositare un documento d’identità al momento dell’apertura di un profilo su Facebook, Twitter, Instagram e compagnia. Come se, fra parentesi, molte di quelle informazioni hater e troll non ce le servissero già su un vassoio d’argento e come se l’anonimato fosse poi davvero tale.

Lo ha spiegato Luigi Marattin, deputato di Italia viva, su Twitter: “Da oggi al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo utilizzando un documento d’identità. Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così”.

Un modo molto grezzo di trattare le politiche tecnologiche, un po’ come capitato in Germania con la legge NetzDg che obbliga le piattaforme a rimuovere i contenuti illegali e di odio nel giro di 24 ore, pena sanzioni molto alte, da cinque a 50 milioni di euro. Ma lo fa in un perimetro fumoso, senza chiarire esattamente modi e contenuti e per giunta lasciando comunque in molti casi mano libera ai social, che possono rispondere in modo motivato. Oppure come i filtri automatizzati anti-odio a cui si guarda per esempio in Francia, dove pure si intende collegare l’identità digitale, lo Spid locale, con il riconoscimento facciale. Parte dell’illusione che i filtri, come nel caso diverso ma metodologicamente affine della direttiva sul copyright, possano risolvere ogni cosa.

La soppressione del (presunto) anonimato come chiave essenziale del problema dell’odio in rete, la delega alle piattaforme – che sempre di più deragliano nelle loro operazioni di polizia e pulizia sotto molti punti di vista, accartocciandosi in responsabilità che spesso non competono o lasciando passare ciò che invece andrebbe eliminato senza indugio come razzismo e genocidi – per la rimozione dei contenuti, le leggi speciali per il web urlate a ogni brutto avvenimento, come se non disponessimo di un corpus legislativo già adeguato, sia nazionale che internazionale. Semmai sono le risorse, le pratiche e le competenze, a mancare. Ma questa è un’altra storia.

Sul quadro internazionale lo ha dimostrato con chiarezza Fabio Chiusi in un pezzo su Valigia Blu nel quale prende a riferimento, per una gestione sensata delle criticità sulla libertà di espressione online, la normativa internazionale sui diritti umani anche per come illustrata nell’ultimo rapporto di David Kaye, Special Rapporteur Onu appunto per la libertà di espressione. Un punto di partenza per Stati e aziende nei loro rapporti con i cittadini-utenti.

La proposta di Italia viva è invece populismo allo stato puro: propone la pseudosoluzione che a tutti apparirebbe più efficace (“ogni nickname deve avere una carta d’identità!”) perdendosi i cardini della questione. Come mettere il nome sul citofono di casa senza aver costruito nulla di più che il cancello d’ingresso. Il fondo della faccenda passa infatti, a valle, non tanto dal chi quanto dal come, cioè dallo statuto dei contenuti: occorre prima chiarire cosa s’intenda per discorsi d’odio, se per esempio ne facciano parte anche espressioni offensive o di derisione, blasfeme, irriverenti o di altro tipo (penso alla carica sarcastica e talvolta violenta dei meme) e in caso affermativo a quale condizione (per esempio una forma di discriminazione, l’incitamento all’odio, una minaccia concreta secondo la scuola giuridica statunitense). Le regole si chiariscono prima di compiere un qualsiasi passo, non dopo.

Molte di queste indicazioni possono arrivare dal corpus internazionale di norme sui diritti umani. Altre le abbiamo in casa scritte nella Carta costituzionale. Ma quando uno Stato intende intervenire, com’è giusto che accada in certi ambiti per esempio proprio nella definizione del perimetro e della natura dell’hate speech e delle sue conseguenze sanzionabili, dovrebbe partire da quelle linee-guida e da un dibattito ricco di competenze, equilibrato, lontano dalle battaglie di stracci che sono spesso effetti collaterali di una spietata propaganda via social così come dalle raffazzonate indicazioni di Facebook e compagnia al suo maltrattato esercito di moderatori sparso ai quattro angoli del globo.

Insomma, non dovrebbe essere il deputato Luigi Marattin a guidare il dibattito con la legge sulle carte d’identità, né qualcun altro la settimana seguente e quella dopo ancora il personaggio famoso di turno che, magari sull’onda dell’emotività per l’ennesimo attacco di massa, spinge perfino il presidente del Consiglio a pensare a “delle norme per contrastare il linguaggio dell’odio a tutti i livelli, nel dibattito pubblico e nelle comunicazioni via social”. Ma che vuol dire a tutti i livelli? E in cosa consiste – si torna da capo – il linguaggio dell’odio? Cosa ci entra e cosa ne resta fuori?

Viene in mente lo sforzo, perfettibile ma apprezzabile, della Dichiarazione dei diritti di internet del 2015, eredità di Stefano Rodotà e di un importante gruppo di lavoro. Sarebbe il momento di stilarne un altro, di bill of rights, con indicazioni al contempo generali e specifiche sui diritti della cittadinanza su internet che pretenda trasparenza dagli operatori, equilibrio dai legislatori e certo metta a fuoco pratiche efficaci per difendersi ma senza compromettere le garanzie democratiche.

Il perimetro dell’hate speech deve dunque deciderlo lo Stato, prima di ogni altro meccanismo di identificazione o restrizione, in base alla Costituzione, alle carte e alle convenzioni internazionali sul tema, per quanto ambigue in molti passaggi. Per fare in modo che quel meccanismo di schedatura anagrafica non diventi una trappola per ogni genere di opinione, magari estrema ma più che lecita. Ma anche che quelle informazioni, che pure in casi specifici sono facilmente estraibili come hanno dimostrato perfino molti casi di cronaca in cui individuare i responsabili di diffamazioni e provocazioni è stato semplicissimo, non vengano declinate di volta in volta in base al vento politico che tira. Magari etichettando come fake news o hate speech ciò che il governo di turno vorrebbe nascondere e depotenziare oppure dirigendo le purghe verso minoranze o categorie discriminate.

Più che la strampalata anagrafe dei social network bisognerebbe invertire del tutto la logica e la vettorialità degli interventi legislativi: per difendere la libertà di opinione invece di restringerla in modo generalizzato e fuorviante. Aggiungendo garanzie piuttosto che limandole in virtù di un’allucinazione securitaria che a volte sfiora la censura a suon di filtri e certificazioni. Senza ovviamente risparmiare alle piattaforme ogni tipo di prova tangibile della loro correttezza in termini di moderazione dei contenuti e di come quella pratica sia gestita e da chi, dei rapporti e degli interessi societari, dei finanziamenti politici o di altro tipo, dell’accesso, vendita e tutela dei dati personali, del contrasto alle falsità conclamate, dei loro sforzi per evitare che gli algoritmi vengano continuamente ingannati dai più idioti trucchi che passano da utente automatizzate. Ma al contempo senza  demandare alle loro ruoli che non devono appartenere come guardiani del possibile e del dicibile.

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