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mercoledì, Ago 07

Perché lo scioglimento dell’Artico è un guaio anche per noi


Oltre il circolo polare artico il riscaldamento globale spinge sull’acceleratore. E corre più veloce di tutte le più pessimistiche previsioni degli scienziati, mettendo a rischio il pianeta intero

(foto: Getty Images)

Prima la buona notizia: l’ondata di calore che nelle scorse settimane ha soffocato l’Europa se n’è andata a cercare un po’ di fresco più a nord, concedendoci una tregua. Evviva. La cattiva notizia, tuttavia, è che ora è l’Artico a squagliarsi – letteralmente – per il caldo record di questi mesi.

In Groenlandia si registrano temperature fino a 10°C sopra la media stagionale, e nel solo mese di luglio si stima che siano andate perdute quasi 200 miliardi di tonnellate di ghiaccio, sufficienti a far alzare il livello dei mari di oltre mezzo millimetro. Da settimane in Alaska e in Siberia divampano invece violenti incendi che l’Organizzazione meteorologica mondiale ha definitosenza precedenti”. Secondo Greenpeace, le fiamme hanno mandato in fumo 4,3 milioni di ettari della foresta siberiana (un’area grande come Lombardia e Piemonte messi insieme), liberando nell’atmosfera terrestre 166 milioni di tonnellate di CO2.

Nel frattempo in Canada ha persino cominciato a scongelarsi il permafrost, il terreno ghiacciato dove da millenni sono intrappolate enormi riserve di gas metano, un potente gas serra che ora rischia di finire nell’atmosfera.

Come un canarino nella miniera

I climatologi hanno un brutto presagio. Tra gli addetti ai lavori serpeggia il timore che potremmo assistere a una brusca accelerazione del riscaldamento globale.

Quando Vladimir Romanovsky, geofisico della University of Alaska Fairbanks, l’ha visto con i suoi occhi non poteva crederci: il permafrost ha cominciato a scongelarsi 70 anni prima del previsto. La sua spedizione si trovava in uno dei più sperduti avamposti dell’artico canadese, una base radar abbandonata dopo la fine della Guerra fredda a oltre 300 chilometri dall’insediamento umano più vicino. Là dove il suolo era rimasto ghiacciato per millenni, adesso c’erano soltanto stagni e depressioni del terreno su cui cresceva una folta vegetazione.

Romanovsky ha confidato all’agenzia Reuters che il paesaggio era irriconoscibile: gli ricordava gli effetti di un bombardamento. La clamorosa scoperta è stata pubblicata in giugno su Geophysical Research Letter. “È un canarino nella miniera di carbone”, ha commentato Louise Farquharson, coautrice dello studio, riferendosi agli uccellini che i minatori tenevano con sé sottoterra: se d’improvviso soffocavano e smettevano di cantare, significava che c’era una fuga di gas.

Oggi qualcosa di molto simile tiene in allerta i climatologi. Se infatti il permafrost dovesse scongelarsi, finirebbero in atmosfera enormi quantità di gas serra, accelerando in modo drammatico il riscaldamento globale.

Scienziati sotto shock

In queste settimane gli scienziati s’interrogano anche sulla rapidità con cui fondono i ghiacciai della Groenlandia. Il 31 luglio si sono riversate in mare 10 miliardi di tonnellate di acqua, in un solo giorno.

Intendiamoci: è normale che d’estate i ghiacci artici fondano. Quel che conta è l’equilibrio fra l’apporto di neve che si trasforma in ghiaccio durante l’inverno e la massa che si perde durante i mesi più caldi. Ma dai primi anni Novanta la bilancia pende verso una fusione sempre più rapida. Il susseguirsi di estati calde e prolungate ha spezzato un equilibrio millenario. Eventi eccezionali che un tempo avvenivano una volta al secolo, adesso si ripetono ogni decennio.

Gli scenari peggiori dell’Ipcc prevedevano che non avremmo assistito a qualcosa del genere prima del 2050. Ciò potrebbe significare che, almeno nelle regioni artiche, più sensibili agli effetti del riscaldamento globale, la realtà corre più veloce delle più pessimistiche previsioni dei modelli climatici.

Se è così, siamo in un bel guaio. Perché quel che succede all’Artico – come a un canarino in una miniera di carbone – anticipa le sorti dell’intero pianeta.

Effetto domino

Il rischio maggiore è che possa innescarsi una giostra di terrificanti circoli viziosi. Il clima terrestre è un sistema complesso dove ogni fenomeno è interconnesso. Così accade che le ceneri degli incendi siberiani si depositino sul ghiaccio, che diventa più scuro, assorbe più calore e fonde più in fretta. Se la banchisa artica si ritira, il mare sottostante, anch’esso di colore più scuro, assorbe altro calore, accelerando il riscaldamento globale. A quel punto potrebbe scongelarsi anche il permafrost, liberando enormi quantità di gas serra, fino a un punto di non ritorno, il temuto tipping point.

In altre parole, potremmo andare incontro a un pericoloso effetto domino con ripercussioni planetarie. Perché l’Artico è il condizionatore dell’emisfero nord e se si rompe niente sarà più come prima. Le acque più calde gonfieranno gli oceani, fonderanno i ghiacci ancora più in fretta, il livello dei mari si alzerà rendendo molte regioni costiere inabitabili, avremo cicloni più violenti e ondate di calore più intense, e si potrebbero persino modificare le correnti marine, con conseguenze imprevedibili.

Ecco perché si dice che quel che accade nell’Artico non resta nell’Artico. Oggi gli orsi polari siamo noi. E questo spiega perché ultimamente anche i climatologi più compassati sembrano aver messo da parte ogni prudenza per avvertirci che quel che sta accadendo sotto i nostri occhi non è affatto normale. Del resto, abbiamo appena vissuto il giugno più caldo della storia e secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale anche luglio potrebbe battere ogni record.

La fusione dell’Artico non è ancora irreversibile, ma non resta molto tempo. Il segretario generale della Nazioni Unite António Guterres ha avvertito che, senza azioni urgenti contro la crisi climatica, “questi eventi estremi saranno solo la punta dell’iceberg e l’iceberg si sta rapidamente sciogliendo”. Altro che “nuova normalità”. La verità è che ci stiamo inoltrando in una terra incognita.

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