Seleziona una pagina
venerdì, Giu 21

Perché lo stato nasconde la memoria di Giulio Regeni?


Dopo i casi di Ferrara e del Friuli Venezia Giulia, è lecito chiedersi qual è il problema delle forze di governo col ricercatore ucciso in Egitto, emblema di un’Italia aperta al mondo, solidale, curiosa e impegnata

(foto: Alberto Pezzali/NurPhoto via Getty Images)

La richiesta di verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni non sventolerà più sul palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia. La decisione, arrivata a poco più di un anno dall’insediamento della giunta leghista guidata da Massimiliano Fedriga a piazza Unità , ha quantomeno il pregio della chiarezza, dopo che per mesi il vicepremier Matteo Salvini aveva dovuto sostenere arditi esercizi di equilibrismo linguistico – decisamente poco in linea con la sua strategia comunicativa – pur di non esplicitare l’ovvio: nell’Italia immaginata dal governo gialloverde non c’è spazio per il ricordo del ricercatore.

Sul ruolo dei simboli nella costruzione di un immaginario comune si è detto e scritto tanto. Lo sa bene la Lega, che con una legge regionale del 2017 – in seguito dichiarata incostituzionale – aveva sostenuto l‘obbligo di esporre il vessillo con il leone di San Marco negli edifici pubblici della Regione Veneto. E lo sa bene lo stesso Salvini, che proprio in queste ore sta concentrando la sua potenza di fuoco mediatica a difesa di Franco Zeffirelli e Oriana Fallaci, la cui memoria sembrava per un attimo minacciata dall’opera dell’iconoclasta Tomaso Montanari.

Questo è oggi Giulio Regeni: un simbolo. Il simbolo di un’Italia aperta al mondo, solidale, curiosa e impegnata. Un’Italia che considera la complessità un valore e che di questa complessità si innamora, ogni volta, anche quando è più difficile da perseguire. Un simbolo, sì, ma evidentemente non di questa Italia, che di simbologia si nutre solo per fare di nomi e volti uno strumento di propaganda politica, masticando la storia fino a ridurla alle dimensioni necessarie a decorare un minibot.

Ammainare la bandiera che chiede giustizia per un ricercatore di 28 anni, torturato per nove giorni e assassinato in circostanze ancora oscure – o peggio, coprirla con l’immagine di un partito, come accaduto a Ferrara – significa abdicare al proprio ruolo di guida, mettere lo stato al servizio di un’idea e trasformare una battaglia di tutti nella battaglia di qualcuno. Significa temere un simbolo al punto tale da preferirgli una seppur vaga idea di ragion di stato – tutelare i rapporti commerciali con al-Sisi – proprio nelle ore in cui i servizi segreti egiziani arrestano gli avvocati che si occupano del caso e i famigliari della vittima chiedono al proprio paese di dare un segnale forte, ritirando l’ambasciatore al Cairo per far luce sulle ultime ore di un suo cittadino.

Hanno deciso di farne una battaglia di parte, e allora lo sarà. Ma non ci si illuda, perché non sarà mai solo la battaglia della famiglia Regeni, e non sarà mai solo la battaglia di una parte politica contro l’altra. Sarà la battaglia di tutti coloro che si riconosceranno in una certa idea di che non è solo un’idea di progresso, ma anche e soprattutto un’idea di giustizia e verità.

Potrebbe interessarti anche






Source link