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lunedì, Ago 12

Perché non si vota mai d’autunno


(foto: Ed Godden/Digital Camera Magazine/Future via Getty Images via Getty Images)

È possibile che l’Italia torni alle urne in autunno. Ufficialmente, il governo di coalizione fra Lega e Movimento 5 stelle non è ancora caduto ma nei prossimi giorni si voterà la sfiducia al presidente del Consiglio Giuseppe Conte presentata dalla Lega, e l’unica alternativa sul tavolo è un governo istituzionale basato sull’alleanza tra pentastellati, Partito democratico e Forza Italia.

Le elezioni in autunno rappresenterebbero una novità assoluta nella storia dell’Italia repubblicana. L’ultima ed unica volta in cui gli italiani hanno votato in questa stagione risale al 16 novembre del 1919, ma allora il nostro paese era ancora retto da una monarchia (il passaggio alla repubblica, com’è noto, è avvenuto solo nel 1946 col referendum).

Ci sono diversi motivi per cui questo evento non si è ripetuto, e molti hanno a che fare con alcune scadenze economiche importanti, i tempi richiesti per l’insediamento del nuovo parlamento e del nuovo governo, e l’eventualità che dalle urne non esca una maggioranza solida.

Le scadenze d’autunno

Il governo deve presentare entro il 27 settembre la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, noto anche come Def, con la quale pianifica spese e investimenti per i tre anni successivi. Deve poi inviare un documento programmatico di bilancio più dettagliato a Bruxelles entro il 15 ottobre e presentare la manovra alle Camere entro il 20 ottobre. Quest’ultima può essere approvata anche molto più tardi (l’anno scorso è stata deliberata il 30 dicembre) ma il limite massimo è il 31 dicembre dell’anno in corso.

Se si votasse in autunno, questa scadenza non verrebbe quasi sicuramente rispettata. Il parlamento, infatti, non si insedierebbe subito ma solo dopo 20 giorni dal voto – per prassi istituzionale – e il presidente della Repubblica dovrebbe aprire la fase delle consultazioni per individuare una persona cui affidare l’incarico di formare un nuovo governo. Se dalle urne uscisse una maggioranza solida, le consultazioni potrebbero essere brevi, ma l’esecutivo non potrebbe entrare in carica prima di dicembre.

I rischi della mancata approvazione della manovra di Bilancio

L’instabilità politica rappresenta sempre un problema, ma diventa particolarmente serio se coincide coi tempi di approvazione della manovra, come succederebbe se si votasse in autunno.

Il rischio principale è noto come esercizio provvisorio di bilancio. L’esercizio provvisorio di bilancio è regolamentato dall’articolo 81 della Costituzione e dalle legge 468 del 1978 e scatta nel momento in cui non viene approvata la manovra economica entro i tempi richiesti. Quando entra in vigore, si prende l’ultimo bilancio approvato (in questo caso quello del 2019), lo si divide per 12 – quanti sono i mesi in un anno solare – e si autorizza lo stato a spendere tanti dodicesimi quanti sono i mesi di esercizio provvisorio. Il limite massimo è 4.

L’esercizio provvisorio, che pure è stato a lungo una prassi per i governi italiani (basti pensare che dal 1948 al 1988 venne utilizzato 33 volte), non è mai stato una scelta consigliabile: lo stato ha a disposizione poche risorse, può gestire solo le spese ordinarie, e non può fare investimenti. È, in buona sostanza, una misura emergenziale, che tuttavia oggi può avere effetti molto peggiori rispetto a quelli di qualche decennio fa.

Se ai tempi della Democrazia cristiana l’Italia non faceva ancora parte dell’Unione europea e i mercati finanziari non erano in grado di condizionare la politica, oggi lo scenario è molto cambiato: le agenzie di rating vedrebbero questo navigare a vista come una fonte di mancata credibilità istituzionale, declassando il debito del paese (già di per sé altissimo, come è risaputo) e facendo perdere all’Italia il necessario supporto degli investitori internazionali.

Andare in esercizio provvisorio, inoltre, per il nostro paese al momento significa andare incontro a un innalzamento dei prezzi a causa dell’aumento dell’Iva. Se questo meccanismo entrasse in vigore, non ci sarebbero infatti i margini per impedire che l’aliquota ordinaria salga dal 22 al 25,2% e quella agevolata dal 20 al 13%, come previsto dalla manovra del 2019 approvata dal governo Conte.

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