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giovedì, Ott 10

Perché Olga Tokarczuk e Peter Handke hanno vinto il Nobel per la letteratura


L’autrice polacca de “I vagabondi” e lo scrittore austriaco de “I calabroni”, vincitori dei recenti Nobel, hanno in comune una ricerca letteraria che indaga sull’umanità e i confini

Nel mondo editoriale l’attesa per l’assegnazione del Nobel per la letteratura, che avviene come sempre nelle prime settimane di ottobre e smuove il dibattito culturale (e si spera anche le vendite) fino alla fine dell’anno, è sempre altissima. Quest’anno era addirittura doppia perché l’Accademia di Svezia, che assegna il riconoscimento, l’hanno scorso era stata attraversata da alcuni scandali sessuali al suo interno e dunque aveva deciso di sospendere il premio e di assegnarne due direttamente quest’anno. Da tempo era consolidata la teoria che sarebbero andati a un uomo e a una donna, e nonostante i soliti favoriti come Murakami e Ngũgĩ wa Thiong’o o Anne Carson o Margaret Atwood siano rimasti a bocca asciutta, la profezia si è avverata: il premio Nobel 2018 è andato a Olga Tokarczuk e quello 2019 a Peter Handke. Due nomi relativamente più noti di molti loro precedessori e soprattutto due europei, nonostante negli scorsi mesi l’Accademia avesse proclamato di voler estendere il suo sguardo oltre il continente.

Negli ultimi giorni le quotazioni della scrittrice e attivista polacca Olga Tokarczuk erano salite di molto fra i bookmaker, anche se il suo nome stava vivendo un momento particolarmente fortunato già con la vittoria del prestigioso Man Booker Prize del 2018 con il suo ultimo romanzo, I vagabondi, pubblicato da Bompiani. Il libro era una riflessione narrativa sul tema del viaggio che, mimando lo scorrere del fiume Oder, racconta l’esistenza ondivaga e nomade di persone fuori dal comune, come la sorelle di Chopin, lo scopritore del tendine d’Achille, un bimbo rapito in Nigeria o la vita del popolo vagabondo dei bieguni. Il tutto viene mandato avanti da scritti brevi, citazioni, flash di immagini e suggestioni che abbracciano culture, nazioni ed epoche diverse. La motivazione dell’Accademia svedese sottolinea proprio la sua “immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il passaggio dei confini come una forma di vita”.

Olga Tokarczuk (foto: Getty Images)

Nata nel 1962 a Sulechów, Tokarczuk ha studiato psicologia all’università di Varsavia per poi iniziare a dedicarsi alla scrittura a partire dal 1989: nella sua carriera ha scritto raccolte di poesie, romanzi e racconti, sempre attraversati da una suggestione mitica e da un’attenzione alla storia dei popoli e delle persone, la quale dischiude il segreto tortuoso delle identità e dei rapporti reciproci. Fra i suoi libri più celebri ci sono la raccolta poetica di debutto, Città allo specchio, e più ancora i romanzi (entrambi editi da Nottetempo) Nella quiete del tempo, sulle vicende di un villaggio polacco osservato da quattro arcangeli per svariati decenni a partire dal 1914, e Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, un giallo in cui una vecchia astrologa lega misteriosi morte alla vendetta degli animali prede di caccia.

Per le sue posizioni ambientaliste, europeiste e anti-xenofobe, l’autrice è stata spesso osteggiata dai partiti nazionalisti polacchi ma ha anche vinto il German-Polish International Bridge Prize per aver promosso la pace e la collaborazione fra le nazioni europee, oltre a due Nike Award, i più importanti riconoscimenti letterari in Polonia. Anche il suo ultimo libro, Księgi jakubowe (ancor inedito in Italia ma il cui titolo si può tradurre come I libri di Jacob), riflette su un episodio cruciale della storia degli ebrei nell’Europa centrale del XVIII secolo e di conseguenza sull’identità e la coesistenza delle nazioni oltre le barriere e i pregiudizi.

Peter Handke (foto: Getty Images)

Anche Peter Handke è uno scrittore poliforme e interessato ai territori dell’ibridazione. L’autore austriaco, nato nel 1942 in Carinzia, ha dato vita a poesie, di romanzi ma anche drammaturgo e sceneggiatore: suo è il libro Prima del calcio di rigore che ha poi ispirato l’omonimo film di Win Wenders, regista col quale ha scritto anche il capolavoro Il cielo sopra Berlino. Autore molto prolifico, Handke ha sempre fuso la riflessione sul proprio dato biografico con un anelito di osservazione universale. Dopo il suicidio della madre, di origini slovene, scrisse l’opera semiautobiografica Infelicità senza desideri e dedicò negli anni Novanta alcuni reportage narrativi alle guerre in Iugoslavia e alla questione serba, prendendo anche alcune posizioni controcorrente rispetto all’establishment dell’epoca.

Dopo aver debuttato alla fine degli anni Sessanta facendosi notare per lo spirito polemico e urticante, esemplificato nella sua opera teatrale Insulti al pubblico, Handke esordì nel romanzo con I calabroni (ripubblicato quest’estate da Guanda), un mosaico esistenziale e inafferrabile, impossibile da riassumere quanto profondo nel segnare il lettore. Notevoli anche le opere in cui riflette sulla condizione stessa di scrittore, come Storia della matita o I giorni e le opere, ma anche come Il mio anno nella baia di nessuno, in cui riflette su barriere, frontiere ed esilio. Fra le sue poesie da ricordare la raccolta Canto alla durata (Einaudi), in cui riflettere sull’incedere del tempo e sullo svanire dell’esistenza. Tutti temi che ben si riassumono nella motivazione del Nobel, assegnatogli “per l’influente opera che con inventiva linguistica ha esplorato la periferia e le specificità dell’esperienza umana”, con buona pace delle opinioni dello stesso Handke che in passato aveva duramente criticato il premio Nobel ritenendolo una “finta canonizzazione”:

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