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mercoledì, Feb 24

Quali sono le minoranze linguistiche in Italia (e perché una legge non le salverà)



Da Wired.it :

Friulano, sardo, catalano e albanese: sono dodici le lingue riconosciute da una legge che, sebbene nata con le migliori intenzioni, ha dato vita anche a fenomeni discutibili

(foto: Unsplash.com)

Perché una lingua viva è fondamentale che un gruppo di persone, più o meno esteso, avverta la necessità e il desiderio di usarla. Viceversa, lentamente ma inesorabilmente quel codice scompare (e gli esempi in tal senso in Europa non mancano). Il 21 febbraio ricorre la Giornata internazionale della lingua madre e noi abbiamo deciso di fare un’incursione fra le lingue diverse dall’italiano (e dai dialetti) che si parlano nelle nostre regioni. Sono sistemi linguistici non maggioritari, definiti minoranze linguistiche.

La definizione teorica dal punto di vista delle scienze del linguaggio è proprio basata su rapporti numerici. Come ci spiega Fiorenzo Toso, docente di linguistica generale all’Università di Sassari e autore di Le minoranze linguistiche in Italia (Il Mulino), infatti “sono da considerare minoranze linguistiche tutti i gruppi di persone che parlano qualcosa di diverso rispetto alla lingua della maggioranza. Nel caso italiano la situazione è molto complessa perché in senso largo potremmo considerare in questo gruppo anche tutte le comunità che parlano i cosiddetti dialetti italiani (che, sia chiaro, non sono dialetti dell’italiano) e le lingue degli immigrati”.

Ma tra teoria e pratica, e in questo caso anche tra scienza e legge, spesso c’è uno scarto. Dal 1999 la legge 428 riconosce ufficialmente solo dodici minoranze linguistiche recependo le indicazioni della Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, istituita nel 1992 dal Consiglio d’Europa.

Le minoranze in Italia possono rientrare schematicamente in tre gruppi, riconducibili al concetto linguistico di alloglossie, ossia varietà più nettamente differenziate dalla lingua di maggiore diffusione. Lingue provenienti da un altro paese e stanziatesi da secoli nel nostro; lingue che rappresentano in qualche modo un’appendice di un territorio estero in Italia; infine, varietà linguistiche parlate storicamente sul territorio italiano e sorelle della nostra lingua da un punto di vista genetico, ma che sono talmente caratterizzate, da risultare molto diverse. Una veloce carrellata include, nel primo gruppo, l’albanese arrivato in Italia nel 1400 e tuttora parlato in diverse regioni meridionali fra cui Calabria e Sicilia e il greco di alcuni comuni salentini. Nel secondo, il tedesco altoatesino, il francese in Valle d’Aosta e lo sloveno a Trieste. Nel terzo rientrano il sardo, il friulano e il ladino.

Sardo, friulano e ladino per molti aspetti, anche di carattere storico, potrebbero essere considerati alla stregua dei dialetti italiani, ma è stato fatto passare il concetto secondo cui sono molto diversi dalla lingua standard, derivati dal latino in maniera più autonoma. Qui si apre il vaso di Pandora perché piemontese e pugliese, per esempio, non sono in fondo più simili all’italiano di quanto lo siano sardo e friulano. La realtà è che in zone come la Sardegna e il Friuli storicamente c’è stato un intenso movimento rivendicativo: la legge ha tenuto conto di quali comunità hanno fatto presente con maggior forza le proprie istanze linguistiche”, osserva Toso.

Anche il bilinguismo che effettivamente interessa i territori in cui si trovano le minoranze linguistiche varia molto. Così, mentre in Alto Adige quello italo-tedesco è pressoché perfetto e interessa tutti i settori della convivenza sociale, lo stesso non si può dire negli altri casi. Non stupisce che gli altoatesini si siano attrezzati per rivendicare il bilinguismo ben prima del 1999, esso “è riconosciuto in base ad accordi internazionali stipulati dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo caso la legislazione precedente superava di fatto le prerogative previste dalla legge del 1999”.

Per le altre minoranze invece, il bilinguismo spesso è più teorico che reale. Questo per una serie di motivi che includono la mancanza di una tradizione storica di usi formali della lingua minoritaria, utilizzata per lo più per questioni quotidiane. “Se io dal giorno alla notte stabilisco di tradurre in walser i moduli dell’Imu, mi accorgo di non avere il lessico, le parole necessarie per farlo. Questo perché tradizionalmente quella lingua è stata utilizzata essenzialmente per parlare di pastorizia e agricoltura. È molto facile mettere sullo stesso piano italiano e tedesco in Alto Adige, ma non sempre si può fare lo stesso con le varietà che storicamente sono percepite come dialetti, a cui si ricorre solo nella quotidianità o in contesti familiari”.

A questo si aggiunge anche il rapporto che i parlanti stessi hanno con quella varietà linguistica che raramente, ormai, viene trasmessa come lingua materna ai figli. Può essere oggetto di insegnamento scolastico, certo, ma col rischio di essere percepita in ogni caso come una lingua seconda. “Se la si impara soltanto a scuola, una volta usciti, i ragazzi torneranno a parlare italiano. Un conto è l’uso reale, effettivo, un conto la rappresentazione della specificità linguistica: ad Alghero, ad esempio, si vedono molti cartelli scritti in catalano, ma trovare qualcuno che lo parli non è semplice”.

La legislazione sulle minoranze linguistiche, come spesso accade in Italia (e non solo), presenta luci e ombre. Da un lato “è sicuramente valida, anche perché è un diritto sancito dalla Costituzione quello della diversità linguistica e va nella direzione di un’uguaglianza formale dei cittadini”. Ma dall’altro, complici anche i finanziamenti che concede ai comuni che ospitano minoranze linguistiche, ha innescato una sospetta corsa all’autocertificazione. “Ci sono finanziamenti per tutte le iniziative di tutela, valorizzazione e promozione di queste lingue. Formalmente ci sarebbe anche la possibilità di parificarle all’italiano praticamente sotto tutti gli aspetti, compresi l’insegnamento scolastico, gli atti ufficiali, la segnaletica e le trasmissioni televisive”.

Ma al tempo stesso la legge convoglia nelle casse comunali cifre interessanti ed è successo che parte del denaro concesso sia stato dirottato anche su altre necessità. Inoltre, si sono moltiplicati in maniera sospetta i comuni in cui si parlerebbero alcune delle lingue riconosciute. “Per esempio, in Piemonte i comuni di lingua occitana riconosciuti dai linguisti sarebbero una settantina, ma sono diventati molti di più. C’è stata una proliferazione degli occitani che ormai arrivano alle porte di Cuneo e di Torino. Molti comuni si sono fatti due conti e hanno dichiarato un’appartenenza assai dubbia per scopi strumentali. Purtroppo, succede anche questo”.

Al di là della gestione talvolta discutibile in diversi contesti, sull’efficacia della legge 482/99 nel preservare queste lingue minoritarie è ancora presto per esprimersi. Certo, l’intenzione è ottima anche se arrivata “quando molte delle lingue riconosciute erano già in crisi irreversibile. Nel 1999, ad esempio, il walser aveva ormai poche centinaia di parlanti. Allo stato attuale però non conosciamo casi in cui la legge ha stimolato un’inversione di tendenza nella crisi di una lingua, un fenomeno che purtroppo interessa tutte le lingue che hanno tradizioni prevalentemente parlate, e questo vale per il sardo non meno che per il piemontese. E questo processo non può essere evidentemente arginato solo a colpi di disegni di legge”.

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[Fonte Wired.it]