Dalla gioia alle passioni di una stagione vivace o malinconica, così com’è stata descritta dai grandi autori: dal fresco premio Nobel Olga Tokarczuk fino a Chris Offut, e anche al poeta Walt Whitman, un tripudio letterario di foglie ingiallite
Siamo entrati – chi più chi meno, e riscaldamento globale permettendo – in quella stagione nervosa e instabile dipinta da poeti e narratori chiamata autunno. Dominata da colori tenui, dai gialli e dai marroni sugli alberi in pieno foliage, a volte ravvivata dai falò dei campi o dal rosso di qualche foglia d’acero, il tono che i narratori di ogni epoca hanno conferito all’autunno è quello tipico di una stagione a metà, di passaggio, tra la nostalgia (ricordo di un’ipotetica estate della vita) e il senso dell’imminente fine (con l’arrivo dell’inverno). “Così alla fine l’estate si riduce a queste poche macchie / Di ruggine e di marcio sulla porta da cui lei è uscita”, verseggiava Wallace Stevens nel suo (ultimo) libro di poesie, chiamato appunto Aurore d’Autunno (Adelphi), dove la stagione di cui parliamo ritorna ossessivamente più volte. Versi ai quali però potremmo contrapporre quelli celebri di Emily Dickinson: “Se tu venissi in autunno, / Io scaccerei l’estate, / Un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto, / Come scaccia una mosca la massaia”. Autunno stagione quindi sinonimo di una certa decadenza a tratti pure dolce, di passioni dispettose – non certo votate all’erotismo più caldo ma nemmeno fuochi pallidi – periodo di simbolico approccio alla senescenza sì, ma anche di meditazione spesso associata a lunghe e gioiose camminate, nell’intenso verde boschivo pullulante delle forme più varie.
Parlando di tutt’altre caccie, ovvero quelle reali, il recente premio Nobel Olga Tokarczuk ritornerà presto in libreria a fine anno con Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Bompiani, dicembre, ma il libro era già uscito con Nottetempo, quando l’autrice era molto meno nota in Italia). Una favola nera e selvatica che si risolve in giallo, con protagonista una lunatica anziana insegnante d’inglese che nel tempo libero traduce Blake, fa l’oroscopo alle persone che incontra, e lotta per gli animali della valle polacca dove vive, ostacolando più volte l’attività dei cacciatori. Fino a che però strane morti di uomini si verificano in quegli stessi boschi. “A lei fanno più pena gli animali degli uomini”, le dicono considerandola la principale sospetta, perché va in giro dicendo che quegli assassinii sono da considerarsi le vendette degli animali della valle, e non opera umana. In un momento di forte riconoscimento degli animal rights, questa novella macabra – che pare toccare anche la tematica dell’ecoterrorismo – è però in fondo un grido dalla vita nei confronti della morte. Ci ricorda che l’inverno è sempre dietro l’angolo, specie nelle azioni umane, e che è la natura più selvaggia che ci insegna spesso compassione ed empatia.
Offut fa certo parte a pieno titolo, col suo minimalismo mai scontato, di quella tradizione che ci descrive una verde autunnalità non solo come luogo di un certo dissidio tra il bene e il male, ma come forte prerogativa estetica, tutta americana. Potremmo scomodare non solo Kent Haruf che spesso celebra l’autunno nei suoi romanzi, ma anche tra i classici il Henry David Thoreau di Colori d’autunno, appena riproposto da Lindau, che ci dimostra quanta vitalità ci possa essere nell’offerta di colori incredibili che da fine agosto gli si presentava per i boschi e le campagne del New England. In questo libro, Thoreau studia meticolosamente tutta la palette autunnale americana, facendone un trattato estetico che mira a scoprire l’invisibile nel visibile. E dove l’autunno è da prendersi, scrive, come “il fiore, o meglio: il frutto dell’anno” e non come anticipazione della fine.
Ritornando nel Nord Europa, di tutt’altri autunni ha scritto un autore che è oramai entrato nel mito: Stig Dagerman, con Autunno tedesco (Iperborea). L’anarchico scrittore svedese di capolavori come Bambino bruciato o Perché i bambini devono ubbidire?, morto suicida troppo presto nel 1954, fu inviato nelle Germania del 1946 a raccontare il paese distrutto dalla seconda guerra: un paese che già faceva i conti con l’onta del nazismo ma allo stesso tempo soffriva una fame e povertà endemiche. Il reportage di Dagerman è una catabasi nell’inferno che l’autore incontrò viaggiando a Berlino, a Colonia, ad Amburgo, ad Heidelberg, le strade dei senzatetto e i vagoni pieni di profughi, la prostituzione e il malcostume, le strade allagate, piene di fango e alberi bruciati. L’autunno in Dagerman non è affatto gioioso, è una stagione terribile di violenta denazificazione, di passaggio verso un inverno ancor più duro, fin dall’esordio del libro: “Nell’autunno del 1946 gli alberi della Germania sono rimasti spogli per la terza volta dopo il famoso discorso di Churchill sull’imminente caduta delle foglie. È stato un triste autunno, con pioggia e freddo, crisi di fame nella Ruhr e fame senza crisi nel resto del vecchio Terzo Reich…”. L’autore si approssima alla sofferenza del popolo germanico senza pregiudizi, fa domande a quelli che una volta erano schierati con Hitler, rischiando una posizione assai scomoda all’epoca, da uomo a uomo racconta la moralità corrotta del secondo dopoguerra, in un momento in cui la Germania era un succulento bottino di guerra per gli Alleati.
Rimanendo nel Nord Europa, due ultimi consigli legati alla stagione attuale (ma fuori dai 7 del titolo): il noto autore Karl Ove Knausgaard non ha solo impegnato la sua produzione nel ciclo autobiografico ossessivo e minuzioso dei sei volumi de La mia lotta (pubblicati per Feltrinelli), ma si è dedicato anche a un particolare Quartetto delle Stagioni ancora inedito in Italia. Di questo, è Autunno un libro autobiografico indirizzato alla figlia nascitura, in cui l’autore dialoga da padre e allo stesso tempo racconta le meraviglie di un autunno svedese. Il libro segue come un diario i mesi di settembre, ottobre e novembre, e crea, con capitoli intitolati seguendo cose comuni a volte astratte a volte concrete (dai Letti, alla Foglie di Autunno, dalla Medusa, alla Solitudine, alle Mosche, alla Terra…), una catalogo delle meraviglie autunnali da consegnare alla figlia.
Da noi, un’impresa di saga simile a quella di Knausgaard, ma che rimane più solidamente romanzesca, è quella dell’un tempo raccontista Luca Ricci, che ha portato lo scorso anno in libreria Gli autunnali (La Nave di Teseo, 2018) e sta per riportare il secondo volume chiamato Gli estivi, in uscita all’inizio del 2020 sempre per la Nave di Teseo. Gli autunnali era il romanzo di un matrimonio che si infrange nella mancanza di desiderio scoppiata violentemente alla fine dell’estate e completata dall’amor fou del protagonista, lo scrittore fallito Gittani, per una donna conosciuta solo in foto: Jeanne Hébuterne, moglie di Amedeo Modigliani, che diviene un santino da venerare. Ricci da lì costruisce una sorta di architettura perfetta di un adulterio da compiere, che risulta però quasi un motivo egoistico di riscatto e rilancio di Gittani nei confronti di una vita propria che decade – “a differenza di tanti miei coetanei, non mi ero ancora rassegnato a entrare nel novero di quegli uomini disposti a vivere una vita sola”, dice. L’intelligenza narrativa di Ricci è spietata nello scandagliare il teorema amoroso quanto piena di variazioni e tonalità nel raccontare l’autunno romano di Gittani. Autunno che rientra a pieno titolo nella lista dei protagonisti del romanzo, come in realtà una primavera delle ossessioni: “I parchi e le ville s’apparecchiavano dei colori dell’autunno: quei rossi, quei gialli, quei marroni, quegli arancioni, che sono la vera primavera dei temperamenti inquieti”.
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