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lunedì, Set 23

Rambo: Last Blood, la saga poteva finire meglio di così


Concepito come il crepuscolo di un eroe che non salva più nessuno, il film è condannato da una scrittura infima e parzialmente salvato dalla violenza splatter. Dal 26 settembre al cinema

Tempesta nei boschi americani. La situazione è grave, delle persone sono intrappolate dalle intemperie e rischiano la vita per la massa d’acqua che si sta per riversare. Un elicottero deputato al salvataggio deve rinunciare, troppo avverse le condizioni climatiche. Stacco. Nel bosco con un impermeabile e un cappello a falda larga arriva molto cautamente John Rambo a cavallo. Là dove i mezzi moderni si fermano arriva la vecchia scuola, la più vecchia in assoluto. Come un ranger o un cowboy Rambo farà il suo. Come sempre, come fu in guerra, non basterà ma almeno sarà qualcosa. Così il film accoglie il suo pubblico: Rambo è cambiato fuori ma non dentro, ha sempre bisogno di salvare qualcuno.

Ci vuole un pugno di scene a capire che Rambo: Last Blood, quinto capitolo della saga, non è scritto bene. Se Creed II (l’ottavo film in cui compare Rocky) proprio all’inizio ha un momento di grandissimo scrittura, qui invece la sensazione è quella del grande pretesto per far menare le mani a Rambo stia arrivando. Tutto è molto convenzionale, abusato e gridato. I soldi non sono molti e si vede, anche se va detto che Adrian Grunberg (già regista del bel Viaggio in paradiso) ce la mette tutta per dare al film il tono migliore. Con le luci, con gli abiti e con gli ambienti definisce il volto e il corpo di Stallone all’insegna della rovina del tempo. Consumato, lacerato e sgraziato, il vecchio Rambo ha su di sé tutti i segni della vita che lo ha consumato e pare attendere la morte. Insomma questo film non nasce male né era destinato per forza alla mediocrità. Ci è arrivato.

Addirittura all’inizio è difficile riconoscere Rambo. È più civile, meno rancoroso e più che altro amareggiato, soprattutto non ha il suo costume tradizionale. Non è in tenuta militare, non ha la fascia nei capelli non è nemmeno come nel primo film nella tenuta da reduce, anzi è vestito da cowboy perché adesso, dopo gli eventi del quarto film, vive in America, in un ranch che si capisce essere da sempre della sua famiglia, con la donna di servizio che storicamente lavorava lì. Assieme a loro c’è anche la nipote della donna di servizio che, dopo la morte della madre e la fuga del padre in Messico, Rambo ha praticamente adottato. Il prosieguo della trama quasi si scrive da solo.

Alla ricerca del padre la ragazza partirà di nascosto per il Messico contro il parere di tutti e le cose andranno malissimo. Rambo andrà a riprenderla e ovviamente sarà pronto a riversarsi con furia sulla malavita locale come in una versione abile e tecnica del finale di Taxi Driver. Per fortuna il film non si limita a questo, non è solo un’incursione in Messico. C’è molto di più da una parte all’altra di un muro che il film inquadra per sottolinearne l’inutilità (visto che poi in pochissimo e tramite un pratico tunnel lo si aggira agilmente). È tuttavia un ginepraio un po’ inutile cercare di capire dove si posizioni politicamente questo film sicuramente giustizialista, di certo incline ad una sbrigativa visione del crimine.

Rambo del resto è stato sempre l’anima nera di Stallone. Se Rocky rappresenta il racconto della grande fiducia nell’America e nelle sue sconfinate seconde occasioni, nei suoi perdenti che possono sempre rialzarsi e sperare di giungere alla grandezza, da ogni borgata, ad ogni età, tramite una volontà di ferro tradotta in allentamento, Rambo è la sfiducia nel Paese. In tutti i 4 film della serie John Rambo, la macchina di morte addestrata dal governo e poi scaricata, dimenticata e abbandonata, è bersagliato, odiato e scatenato dalle persone, dall’esercito o da chi sosteneva di stare dalla sua parte. Stavolta è non è il suo Paese a fargli del male, stavolta il nemico non è più l’America ma gli uomini. L’idea qui era sicuramente quella di farne un eroe crepuscolare, arrivato a quel punto in cui non ha più senso essere eroe per gli altri, in cui non è più utile a nulla e può solo dedicarsi a futili vendette, la fine dell’eroismo cui sono destinati tutti, ma scrivendo così male un film è impensabile che ciò passi dalla mente degli sceneggiatori al film.

Ci vorrà un po’ più di metà film perché la scrittura da cinema di serie C smetta di funestare il film e si passi all’azione, al momento in cui cioè l’accumulo di rabbia e torti contro Rambo come da copione apre le porte alla violenza. Molta, molta violenza. Rambo: Last Blood segna la svolta splatter della saga attraverso una carneficina con armi fai da te pensata per eccedere in sangue, efferatezza e cattiveria. Non è più una questione di uccidere altri per sopravvivere e uscire vivi dal disastro in cui si è finiti, questa volta è una questione di vendetta e di fare soffrire. Trappole, armi, agguati e uccisioni sono pensate (da Rambo) per fare male e il film appositamente scrive il suo intreccio per fornirgli la motivazione più estrema, per provocargli il dolore più puro, in modo che il suo delirio di violenza possa apparire giustificato agli occhi di chi non aspettava altro. Il film è il suo carnefice, lo provoca come i bulli provocano i deboli, così che si scateni per il nostro sollazzo.

È indubbio che quest’impennata di sangue inusuale e senza compromessi se non altro dia un po’ di brio ad un film che si stava lentamente accasciando. Rivitalizzato per un po’ e messo su un binario almeno vivace Rambo: Last Blood riesce in extremis a fare il suo dovere. Non è abbastanza per essere un successo ma sufficiente per non essere un disastro.

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