“Non dovresti pagare per un software che non desideri. Produttori e venditori non hanno il diritto di imporre sistemi operativi specifici agli utenti, né dovrebbero nascondere il costo di tali licenze nel prezzo finale del dispositivo“, sostiene Lucas Lasota, coordinatore di Refund4Freedom.
Sul sito ufficiale viene spiegato come procedere con la richiesta di rimborso e viene fornito anche il modulo, nonché ogni istruzione per segnalare al garante del mercato e alle associazioni. In più c’è un memorandum sui comportamenti dei produttori.
Casi di successo e insuccesso
Lo sviluppatore (di firmware per dispositivi elettronici) Luca Bonissi ieri ha raccontato – in sede di presentazione stampa dell’iniziativa – le battaglie che ha condotto negli anni nei confronti dei produttori di computer. Tutto è iniziato nel 2015 con una richiesta di rimborso rivolta ad Acer. È andata abbastanza bene anche se ha richiesto la consegna del computer per la rimozione della product key.
Nel 2018 invece con un Lenovo Ideapad lo scenario si è complicato poiché l’unica possibilità era quella di fare un reso. “Quindi ho avviato inizialmente la causa presso il giudice di pace, senza avvocato perché il valore della stessa era di 42 euro. Il problema è che quest’ultimo era un po’ impreparato e di fronte a un atto della difesa di 24 pagine, contestando l’inimmaginabile, sono stato poi costretto ad assumere un legale”, ha spiegato Bonissi.
In primo grado c’è stata una vittoria ma il rimborso di 130 euro era inferiore alle spese legali, poi Lenovo ha proposto un accordo transattivo, che avrebbe risolto totalmente la questione economica, ma domandando anche un patto di non-divulgazione. Bonissi ha deciso di proseguire e alla fine il Tribunale di Monza gli ha dato ragione stabilendo un risarcimento complessivo di 20mila euro. “Sono stati interamente donati alla Free Software Foundation Europe, all’Italian Linux Society, all’Aduc, a Wikimedia e i rimanenti 2mila euro li ho devolutui ad associazioni caritative del mio paese”, ha sottolineato lo sviluppatore.
Secondo gli attivisti è stata un vittoria significativa ma ha evidenziato anche una una dura realtà: “sebbene i consumatori possano legalmente avere diritto a un rimborso, il costo effettivo per far valere tale diritto rimane elevato”. E i tempi possono essere lunghi, anche se la Cassazione nel 2014 ha risolto uno dei nodi centrali dell’argomento: il sistema operativo non è parte integrante dell’hardware. È andata male infatti con Hp nel 2019. “Il giudice di pace mi ha dato ragione e quindi ho ottenuto il rimborso ma non ha riconosciuto le spese di giudizio. Teoricamente avrei potuto fare appello, ma la sentenza di questa causa è arrivata la settimana prima della sentenza di rinnovo e francamente mi è sembrato che i 20 mila euro di risarcimento danni comprendessero in qualche modo anche il rimborso di Hp”.
Lo scenario si è replicato nel 2021 con Acer e in questo caso l’azienda ha interpellato Microsoft per comprendere se fosse possibile “elargire l’imborso senza rimuovere il product key dal bios e la risposta è stata negativa”. Ma a questo giro non si è arrivati davanti al giudice perché è bastato l’invio dell’atto di citazione. “Avevo chiesto il rimborso delle licenze di Windows e Microsoft, quindi circa 75 euro e qualche spesa. E così ho ottenuto”.
In questi anni alcuni produttori hanno definito politiche migliori e procedure più chiare per richiedere e ottenere rimborsi. Qualcuno offre prodotti di fascia alta privi di software pre-installato ma solo sui rispettivi siti ufficiali. E altri ancora invece sono rimasti al palo. L’ iniziativa Refund4Freedom punta a cambiare tutto e ospita sul sito i dettagli di casi di successo e documentazione che potrebbero essere di aiuto “esercitare i propri diritti e richiedere un rimborso”.