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sabato, Set 28

Romanzo digitale: l’età di internet vista dai libri che leggiamo


Nel giorno del Wired Next Fest di Firenze, uno sguardo a come la grande letteratura sta affrontando i cambiamenti tecnologici e sociali di questi anni, da Joshua Cohen a Thomas Pynchon

(foto: FRED DUFOUR/AFP/Getty Images)

In concomitanza con il Wired Next Fest di Firenze, questa settimana tastiamo il polso dei romanzi e libri più recenti che trattano di nuove tecnologie. In generale, negli scrittori di oggi è da un lato arduo e quasi azzardato utilizzare le nuove forme del narrare imposte – ad esempio – dai social media, se non in modo accessorio. Ma si può parlare col linguaggio di internet in un romanzo? E come ragionare di intelligenza artificiale, senza finire nel trito della più corriva retro-fantascienza? Come si fa a raccontare le tecnologie che prevedono il futuro? 

La classica diffidenza – il velato diremmo luddismo – è d’altronde presente da sempre nei romanzieri. “Contro internet”, si potrebbe sottotitolare e banalizzare (nel libro c’è molto di più): così possiamo rubricare il romanzo molto discusso, tra ammiratori e detrattori, di Joshua Cohen, Il libro dei numeri (Codice edizioni). La storia è già di per sé una meta-storia: uno scrittore che si chiama come l’autore del libro viene contrattato come ghost writer dal magnate – che si chiama a sua volta come Cohen – di un’enorme impresa tecnologica stile Google, Tetration, per scrivere l’autobiografia dello stesso. La frequentazione tra i due J.C. ben presto precipiterà in un vortice di avventure bizzarre da Palo Alto a Dubai, accompagnate anche dal vorticoso stile dell’autore in deserti non solo reali, ma metaforici. Cohen infatti ambisce e riesce a mimetizzarsi e innovare la lingua usando, e facendosi usare, dalla sintassi svuotata e desertificata dei nuovi media e dell’informatica complessa a essi associati: è tutto un fiorire di neologismi barbari, ammiccamenti al linguaggio funzionale delle email, ma anche di byte e data, che divertirà il lettore e lo renderà cosciente a un tempo di questa sorta di antilingua che tutti parliamo. 

In America, al suo solito modo di parodista metastorico, a raccontare l’innovazione c’aveva provato però già con relativo successo anche un maestro come Thomas Pynchon, con il suo La cresta dell’onda (Einaudi), raccontando la New York dell’era del primo timido internet, attraverso un romanzo che alla storia tecnologica associava una detective story – pur sempre alla maniera pynchoniana. E ovviamente non possiamo non riferirci a Il cerchio (Mondadori) di Dave Eggers, narratore americano di poco più grande di Cohen, dove si descrive il mondo panottico di un’impresa di social networking molto simile a Facebook, anche per i suoi risvolti inquietanti. 

Se per quanto riguarda la percezione attuale di internet e delle nuove tecnologie (dell’impatto nocivo sulle nostre vite, relazioni, prospettive) siamo così spesso di fronte a una Nuova era oscura, volendo citare il titolo del saggio di James Bridle, teorico britannico del Neo Estetico, e uscito in Italia per la collana Not di Nero Editions, sempre dal mondo anglosassone, arrivano anche storie di Intelligenza artificiale dal sapore retro-futurista, come quella di Macchine come me (Einaudi) di Ian McEwan. Il sapore retro del romanzo dell’autore è chiaro fin dalla prima confessione del protagonista, Charlie Friend, che in una Londra ucronica in cui sono “risorti” i Beatles (John Lennon è vivo!) e la Thatcher ha perso le isole Falkand, acquista uno dei modelli di creatura artificiale da compagnia: un cosiddetto Adam. “Le creature artificiali erano un cliché molto prima del loro arrivo…” chiarisce il narratore, che tende a precisare quanto l’intelligenza artificiale non fosse un giocattolo erotico, quanto piuttosto “venduto come articolo da compagnia, sparring partner intellettuale, amico e factotum in grado di lavare i piatti, fare i letti e «pensare»”. Ma la cosa fondamentale di Adam è che non farà solo tutto questo: si innesterà in una relazione a tre con Charlie e una donna, Miranda, cambiandola nel profondo. L’equivalenza presente fin dal titolo si chiarisce in toni inquietanti. Chi è la macchina, chi l’umano

Dalla scrittura in lingua spagnola, di solito abbastanza estranea alle nuove tecnologie e alla futurologia, stanno arrivando sorprendenti nuove sollecitazioni. Per Sur è da poco apparso in Italia il particolare romanzo Kentuki (Sur) dell’argentina Samantha Schweblin, una scrittrice che fin dai suoi esordi ha contribuito a straniare il panorama delle lettere latinoamericane con elementi weird – leggete anche i suoi racconti di prossima uscita. Cosa sono i suoi kentuki del titolo? Sono animaletti feticcio che vengono acquistati in tutto il mondo da differenti personaggi, “un oggetto di vecchia concezione con una tecnologia probabilmente superata”, ma anche “un ibrido ingegnoso”. Hanno una webcam e possono osservare i tuoi movimenti, la tua vita, e farti osservare, da Oaxaca in Messico, a Tel Aviv, Buenos Aires, rendendoti accessibile a te stesso e agli altri in simultanea… Con la loro perturbante presenza tra Gremlins e Tamagochi sotto varie forme di animaletti (drago, corvo, coniglio…) interagiscono con le vite dei loro proprietari, assumendo il valore e la posizione in modo diverso: per alcuni sono il sostituto di una mancanza o il superamento di un lutto, per taluni un giocattolo, per altri una via di fuga inaspettata, per altri ancora è più importante essere un kentuki più che usarli.

Più che presenze disturbanti, questi strumenti rivelano però quanto i personaggi abbiano tutta la volontà e il bisogno di farsi disturbare e cogliere nelle loro solitudini e sofferenze, come oracoli con zampette a rotelle dai quali attendiamo risposte. Strumento che sta al di là del bene e del male, il kentuki, si legge nel romanzo, “poteva non risponderle, o poteva mentirle. Dire che era una collegiale filippina ed essere un petroliere iraniano. Poteva, per una coincidenza del tutto improbabile, essere qualcuno che conosceva e non rivelarglielo mai. Lei invece doveva mostrargli la sua vita tutta intera e trasparente”. Rimanendo sul lato più bizzarro offerto in spagnolo, vale la pena poi menzionare un vero e proprio caso letterario in patria e all’estero, che da una rielaborazione della sintassi del linguaggio della rete, della scienza e del marketing prende vita: la Trilogia della Nocilla di Agustín Fernández Mallo (in Italia uscito nel primo volume nel 2007 per Neri Pozza, senza alcun minimo riguardo da parte dei lettori e chissà se della stampa).

La Trilogia Nocilla non è solo un trittico, ma un nuovo modo di pensare alla letteratura stessa, guardando ai nuovi linguaggi e alla loro frammentazione, senza farsi inglobare da essi. Il Sogno della Nocilla si apriva e diramava da una solitaria strade del deserto del Nevada (la Route 50), e da lì con una struttura on the road in un’infinità di storie – di ex boxeur, lettori di Borges, internettari danesi, prostitute di Las Vegas… La costruzione dell’intreccio pareva soprattutto influenzata dal mondo in cui oggi leggiamo in rete, scrollando, aprendo finestre, dando breve e intermittente attenzione a una messe costante di Informazione. “È importante considerare che prima si creava a partire dalla conoscenza, oggi a partire dell’informazione”, ha dichiarato l’autore. 

In ben pochi autori praticano e si lasciando influenzare dall’utopia piuttosto che dalla distopia tecnologica come nei casi di Cohen o Mallo. Tra i pochi, uno di questi, facente parte della nuova generazione, è certamente Fabio Deotto. Il suo ultimo romanzo Un attimo prima (Einaudi), pur non lavorando sull’aspetto formale di un nuovo ibridismo con il linguaggio dei media, ha provato ad avventurarsi nel ruolo che le nuove tecnologie possono riservare nella difficoltà affettive come quelle del protagonista, che ha perso suo fratello e cerca di superare il trauma sperimentando con una tecnologia di trattamento psicologico ispirata alla scatola del neurologo indiano Ramachandran. Rimane ad oggi un tentativo riuscito, ma a nostro avviso poco seguito.

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