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martedì, Gen 24

Rooming in: come funziona e perché non è obbligatorio



Da Wired.it :

Già dai suoi primi istanti di vita, il neonato può stare a stretto contatto con la mamma. Il rooming in è definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), come “la permanenza del neonato e della madre nella stessa stanza in un tempo più lungo possibile durante le 24 ore, salvo quello dedicato alle cure assistenziali”.

Perché si pratica il rooming in

La vicinanza tra madre e figlio, subito dopo il parto, porta con sé numerosi benefici sia al neonato che alla donna evidenziati da molte ricerche. Tra questi ci sono: l’attaccamento reciproco, la riduzione del pianto e un miglior avvio all’allattamento. Il contatto pelle a pelle tra i due, infatti, può stabilizzare l’umore della madre (riducendo il tasso di depressione post-partum), mentre per il piccolo garantisce una maggior sicurezza, che si traduce in una minor sensibilità allo stress.

 Stando ai risultati di uno studio italiano, che si è concentrato sui livelli del cortisolo salivare (affidabili biomarcatori per indicare lo stress), il rooming in riduce i livelli di stress nel neonato. Inoltre, come viene precisato sul sito della Ausl Modena, se da una parte la vicinanza favorisce il raggiungimento di un ottimale ritmo respiratorio e digestivo e rafforza l’apparato immunitario del bambino, dall’altra la madre può sperimentare le proprie competenze nell’accudimento esercitandosi nell’allattamento e nelle prime cure del neonato.

Un’opportunità e non un’imposizione

Il modello del rooming in viene promosso anche dalle principali istituzioni internazionali, come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), e nazionali, come il Ministero della salute, anche per quanto riguarda il corretto avvio all’allattamento al seno. A tal punto che il rooming in è stato inserito, come riporta la dichiarazione congiunta Oms/Unicef, tra i dieci step fondamentali per il successo dell’allattamento. Ogni punto nascita e di assistenza al neonato dovrebbe, infatti, “praticare il rooming-in, permettere cioè alla madre e al bambino di restare insieme 24 ore su 24 durante la permanenza in ospedale”, si legge nel documento.

Tuttavia, il rooming in deve essere inteso come un’opportunità e “non come una imposizione e deve essere proposto senza regole rigide, lasciando alla mamma la libertà di scegliere se e per quanto tempo adottarlo”, spiegano dalla Uppa. “In questo svolge un ruolo importante il personale sanitario, che si prende cura del bimbo o della bimba quando la mamma non se la sente, sostenendo e incoraggiando quest’ultima nei momenti di contatto con il neonato”

L’accompagnamento necessario

Esistono, infatti, dei rischi associati al rooming in, come per esempio il fatto che il continuo contatto con il figlio possa essere per la madre stremante. In questi casi, la donna potrebbe sentirsi sola nell’affrontare le nuove difficoltà, viste anche le restrizioni dovute alla pandemia che hanno avuto un impatto notevole sulle neomamme, ed è proprio qui che serve un maggior sostegno da parte della struttura ospedaliera. “È indispensabile che la madre venga sostenuta e guidata dal personale infermieristico nella presa in carico del bambino, specie nei casi in cui le condizioni personali e/o cliniche materne e del bambino, non le permettano una precoce gestione autonoma del figlio”, spiegano dalla Società italiana di neonatologia (Sin).

Tenendo conto dei suoi effetti positivi, secondo la Sin, il rooming in dovrebbe essere proposto come routine da parte del centro nascita. “Mamma e bambino nel periodo intercorrente fra nascita e dimissione dall’ospedale vanno quindi separati quanto meno possibile, precisano dalla Sin. “Il Nido va però mantenuto come servizio complementare per le situazioni di reale bisogno e per rispondere ad eventuali temporanee richieste delle puerpere che desiderano o devono delegare al personale l’accudimento diretto del proprio figlio”.



[Fonte Wired.it]