Seleziona una pagina
mercoledì, Feb 05

Saranno i dati a renderci più umani?



Da Wired :

Oggi se ne parla sono in relazione all’intelligenza artificiale. Eppure, secondo la designer Giorgia Lupi, i dati possono diventare il fulcro di un nuovo umanesimo

(foto: Giorgia Lupi/Instagram)

“I dati non sembrano connessi alla vita quotidiana, se li associamo ai numeri e agli algoritmi sembrano freddi e inumani. Esiste però un altro approccio, che ci porta a pensare che siano in realtà il filtro attraverso cui possiamo vedere il mondo”. A dirlo è Giorgia Lupi, information designer e partner dello studio di design Pentagram, che ha introdotto il concetto di data humanism intervenendo a Milano nell’ambito di Interaction Week, evento dedicato al design. Wired l’ha incontrata per capire come il cibo preferito degli algoritmi di machine learning potrebbe paradossalmente diventare l’elemento cardine per la nascita di un nuovo umanesimo.

In quello che potremmo definire il suo manifesto [nella foto in apertura, ndr], lei definisce il data humanism solo per negazione, dicendo ciò che non è. Ma se volessimo una definizione positiva?

“Il motivo per cui il manifesto funziona nasce dal fatto che a tutto ciò che nasce e diventa di moda iniziano ad essere attaccati degli attributi che non necessariamente rappresentano ciò su cui dovremmo focalizzarci. Definire per negazione consente di demistificare le concezioni sbagliate legate ai dati”.

Quali, ad esempio?

“Il fatto che servano solo ad automatizzare ciò che esiste già, che siano big and scary. Negare questi attributi mi porta a riconnetterli alle qualità umane e quindi a definire il data humanism”.

Che, quindi, in cosa consiste?

“Nel ricordarsi sempre e comunque che i dati sono delle rappresentazioni di noi e delle nostre vite che noi esseri umani abbiamo creato perché non avevamo altri mezzi per registrare quello che accade. Anche quando raggiungono alti gradi di complessità, dobbiamo sempre ricordarci che si tratta di artefatti umani. Se quindi togliamo ogni presunzione di oggettività e di verità assoluta, ecco che arriviamo a un rinascimento e a un nuovo umanesimo che ci porta a utilizzare i dati in maniera significativa”.

Possiamo dire che mentre le macchine si concentrano sulla ricorsività, il data umanesimo può porre la propria attenzione sugli outliers?

“Può essere. Parlo ovviamente da designer, ci sono ricercatori nell’industria che hanno più autorità di me per spiegare come si lavora con il machine learning e quali sono i pregiudizi che possono essere inseriti negli algoritmi. Posso dire che resto sorpresa da quanto le persone riescano a relazionarsi con il mio lavoro, credo che questo derivi dal fatto che prima di iniziare io mi chiedo sempre come posso fare in modo che le mie visualizzazioni parlino alla natura umana e alla società”.

E come si risponde?

“Penso che alla fine i dati hanno a che fare con le persone e che, come esseri umani, abbiamo bisogno di conoscenza, di capire fino a che punto siamo unici e quanto invece rientriamo in uno schema. Forse più che la visualizzazione stessa sono le domande che ci si pone per costruire un dataset a renderlo più o meno umano”.

Giorgia Lupi

Quali sono le caratteristiche che rendono una dataviz efficace dal punto di vista informativo e quali dal punto di vista estetico?

“Ci sono ovviamente degli spettri, ma dipende innanzitutto dall’obiettivo della dataviz. Bisogna capire se lo scopo è quello di informare, di creare conoscenza, engagement o addirittura empatia. Quindi bisogna definire il pubblico di riferimento: ci rivolgiamo a persone che hanno familiarità con i dati e la loro visualizzazione? Infine occorre comprendere il mezzo: un design per lo sviluppo di un’app o per la parete di un museo sono molto diversi tra loro”.

Questo in generale. Ma per quanto riguarda il suo lavoro?

“Io agisco soprattutto per creare engagement, esperienze, contenuti che vengono fruiti più lentamente. Per questo io credo che le visualizzazioni debbano essere memorabili ed esteticamente capaci di incuriosire. L’elemento estetico è incredibilmente importante”.

Quanti numeri ci sono nel suo lavoro?

“Io mescolo sempre qualitativo e quantitativo. Onestamente gli elementi ai quali le persone si relazionano maggiormente sono quelli qualitativi. Diciamo che il quantitativo ancora, ma il qualitativo definisce”.

Ritiene che il data design possa essere uno strumento per combattere la paura dei numeri, la diffidenza verso ciò che è quantitativo?

“Secondo me sì. Il design ha il potere di mostrare le cose in maniera più comprensibile per l’essere umano, dato che noi comprendiamo visivamente. Paradossalmente, però, vale anche l’opposto: ho visto persone che hanno sempre avuto il terrore della pagina bianca e che mai si sarebbero definite creative, riuscire a diventarlo utilizzando elementi quantitativi e parametri che definiscono le regole in base alle quali si traccia un segno. La creatività si muove in entrambe le direzioni”.

Pensa che il data design possa essere uno strumento per combattere la disinformazione?

“Assolutamente sì. Il design crea consapevolezza, estrae i dati e aiuta le persone a mettere tutto in prospettiva. Ovviamente, se parliamo di fake news, sono altri i fattori in campo. Ma più cresce la data literacy della popolazione, maggiore è la possibilità di utilizzare i dati e la loro visualizzazione per parlare di fatti reali”.

In che senso sostiene che i dati ci renderanno più umani?

“In ogni mio progetto di design se non li avessi utilizzati avrei perso delle opportunità per raccontare delle storie utilizzando un linguaggio umano. I dati permettono di vedere le cose one subject at a time, di concentrarsi sugli aspetti rispetto ai quali si è più curiosi ponendo delle domande in maniera sistematica e analitica che consentono di osservare le cose in maniera diversa. In questo senso ci aiutano a diventare più umani”.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]