Proprio questa mimesi rende la disinformazione così efficace. Perché tra scienza e ciarlataneria, tra sapere dimostrabile e mera opinione, il confine non è sempre presidiato. È lì che si insinuano i trafficanti del dubbio. E lo fanno approfittando della natura stessa della scienza: provvisoria, incerta, rivedibile. In una parola: onesta. La scienza procede per congetture e confutazioni; la disinformazione sfrutta questa onestà epistemica per insinuare che “tutto è opinabile”. È il regno del cinismo: se la scienza non fornisce certezze assolute, allora riducila a un’opinione come un’altra. Se non puoi negare l’evidenza, semina incertezza. E se non hai argomenti, metti in discussione chi li ha. Personalizza, delegittima, menti: tutto tranne affrontare i dati.
La scienza dei ciarlatani gioca in vantaggio. Non ha bisogno di prove, verifiche, di essere sottoposta allo scrutinio degli esperti. Viaggia leggera, agile e veloce. Bastano un post, un meme, una manciata di click. E funziona.
Lo mostra uno studio pubblicato su Science, “The spread of true and false news online”: analizzando oltre 126mila notizie (vere e false) circolate su Twitter tra il 2006 e il 2017, gli autori hanno rilevato che le notizie false si diffondono più velocemente, più lontano e più in profondità rispetto a quelle vere. Mentre la verità raramente supera le mille condivisioni, le bufale di successo possono raggiungere anche centomila utenti. Le fake news sono più sorprendenti, provocano rabbia, paura, disgusto. Emozioni virali.
Le notizie vere, al contrario, ispirano sentimenti meno cliccabili: fiducia, riflessione, prudenza. E, contrariamente a quanto si pensa, non sono i bot i principali responsabili. Siamo noi. Pronti a indignarci, condividere, rilanciare. Senza verificare. La battaglia tra verità e menzogna è profondamente asimmetrica. Confutare una bufala richiede tempo, competenza, pazienza. Montarla è questione di un attimo. È il noto bullshit asymmetry principle, secondo cui l’energia necessaria a smontare una stronzata è almeno dieci volte superiore a quella necessaria a produrla.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’industria del tabacco ha incarnato questo cinismo nella sua forma più opportunistica e criminale. Già allora, una mole crescente di studi collegava il fumo al cancro ai polmoni. I dati erano solidi, le curve epidemiologiche inequivocabili, il nesso causale stabilito oltre ogni ragionevole dubbio. Ma per chi doveva proteggere miliardi di profitti, non era abbastanza. Il fumo causa il cancro? “Non lo sappiamo con certezza”, affermavano. “Servono altri studi”. E se i dubbi non c’erano, bastava crearli, fabbricando l’illusione di un dibattito ancora aperto.



