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lunedì, Giu 29

Se il boicottaggio delle grandi multinazionali mette in crisi l’equilibrismo di Zuckerberg



Da Wired.it :

Starbucks è l’ultima di una lista di multinazionali contrarie a quella che Facebook considera libertà di parola e, secondo molti, è solo libertà di inneggiare all’odio

Facebook è nuovamente nell’occhio del ciclone, dopo che è finita al centro di una campagna contro l’odio in rete promossa da alcune associazioni americane per i diritti civili. Non è una novità, ma di nuovo c’è la caratura dei soggetti che stanno partecipando all’iniziativa, tradottasi nel boicottaggio della piattaforma e nell’interruzione nel mese di luglio delle inserzioni pubblicitarie su di essa. Ci sono, tra le altre, Coca-Cola, Starbucks, Unilever, Verizon, North Face, Patagonia.
Stop Hate for Profit è il nome della campagna, con gli organizzatori che hanno detto di voler mandare a Facebook un messaggio importante: “I tuoi profitti non varranno mai abbastanza per promuovere l’odio, il bigottismo, il razzismo, l’antisemitismo e la violenza”. Secondo quanto ha calcolato Bloomberg, la società perderà circa otto miliardi di dollari per la sospensione dei pagamenti in pubblicità delle grandi multinazionali nel mondo, un problema per una piattaforma che fonda la sua sussistenza economica anche e soprattutto su questa voce. E la risposta di Facebook alla crociata che la riguarda non si è fatta attendere: “Investiamo miliardi di dollari ogni anno per mantenere la nostra comunità sicura e lavoriamo costantemente con esperti esterni per rivedere e aggiornare le nostre policy”, ha sottolineato Mark Zuckerberg, difendendosi dalle accuse ma promettendo di fare di più nel futuro.

Del tema dell’odio sui social network e della passività dei gestori della piattaforme a riguardo si parla da tempo. La linea di Zuckerberg è sempre stata la stessa, quella di ricordare come Facebook non sia una media company quanto piuttosto una compagnia tecnologica che consente a tutti di esprimersi. Vegliare sui contenuti, dunque, non sarebbe tra le sue prerogative. In realtà il Ceo della società di Menlo Park ha dovuto limare nel tempo questa sua posizione, non è un caso che secondo un report recente nel primo trimestre del 2020 sono stati rimossi dalla piattaforma 9,6 milioni di contenuti catalogabili come hate speech. Ma la storia delle ultime settimane, con le proteste di Black Lives Matter a farla da padrone nel mondo reale ma anche in quello virtuale, ci ha raccontato come l’odio in rete continui a scorrere come un fiume e che il lavoro di filtro della società di Zuckerberg non stia funzionando come dovrebbe. A inizio giugno c’è stato anche uno sciopero di centinaia di dipendenti della compagnia, contro la decisione di Facebook di non prendere provvedimenti sulle dichiarazioni del presidente americano Donald Trump a proposito del fatto che fosse giunta l’ora di sparare sui manifestanti – a differenza di Twitter, che aveva invece rimosso il post. Zuckerberg, anzi, è tornato a parlare di “libertà di espressione” in proposito. La campagna di boicottaggio da parte delle associazioni per i diritti civili, che si è portata dietro diverse multinazionali, nasce da qui.

Mark Zuckerberg ha sempre mantenuto un atteggiamento coerente riguardo alla policy della sua piattaforma. A farla da padrone è l’equilibrismo, una sorta di versione tecnologica del super partes politico, che si traduce nel non voler prendere mai posizione per non scontentare nessuno – né progressisti né conservatori. La libertà di espressione da sempre invocata in realtà c’entra poco, il fulcro del discorso è che a una grande multinazionale come Facebook conviene tenersi tutti stretti per questioni di business. Filtrare ideologie come il trumpismo quando esse si rivelano in tutta la loro violenza, come fatto di recente da Twitter, significa inimicarsi una parte importante dei “poteri forti” e dei loro aficionados. Più che neutrale, Zuckerberg è allora un personaggio poco coraggioso, che sacrifica gli ideali di civiltà alle sue logiche commerciali.

Invocare la libertà di espressione di base è importante, ma quando essa finisce per legarsi all’hate speech il discorso cambia. Nessuno chiede a Facebook di trasformarsi da compagnia tecnologica a realtà politica, con un manifesto da veicolare attraverso i propri utenti. Piuttosto, si tratta di riconoscere che sulla piattaforma continuano a pullulare bufale sui migranti, discorsi omofobi, attacchi alle minoranze, propaganda no vax e via dicendo. Contenuti che non possono avere il semaforo verde in nome della libertà di espressione, perché il loro effetto sociale è nocivo. Se fino a oggi a prevalere è stato l’equilibrismo, forse il boicottaggio delle grandi multinazionali, le perdite pubblicitarie per Menlo Park, il crollo del titolo in borsa in corso, potranno convincere Zuckerberg a fare qualcosa di più. Anche in questo caso, però, sarebbe per pura logica commerciale.

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[Fonte Wired.it]