Sognate in italiano?
Eduardo Stein Dechtiar: “Sogno in portoghese ma che sto traducendo una cosa in italiano”.
Ramiro Levy: “A volte sì, a volte no, dipende. E quindi abbiamo iniziato a fare la versione e l’abbiamo sentita subito come un pezzo nostro, infatti da prima che Ney accettasse di partecipare avevamo già deciso di aprire il disco così”.
Quanti anni fa siete arrivati a Milano esattamente voi?
Eduardo Stein Dechtiar: “Nel 2008, poi la residenza è arrivata nel 2009”.
Ora avete anche nazionalità italiana?
Ramiro Levy: “Io per puro caso ho il passaporto italiano da quando sono nato, grazie al mio bisnonno”.
Daniel Plentz: “Io sto aspettando la cittadinanza italiana da 4 anni”.
Eduardo Stein Dechtiar: “Io sono anche cittadino polacco ma da qualche mese mi è arrivata anche quella italiana”.
Come ve la ricordate Milano quando siete arrivati?
Ramiro Levy: “È stata tosta perché arrivavamo da Barcellona, due anni in cui abbiamo provato a vivere il sogno in una città magica e poi siamo giunti a Milano d’inverno, senza conoscere nessuno e in più una Milano di 15 anni fa. Vivevamo lontani e pensavamo ‘Mio Dio, cosa stiamo facendo qui?’”.
Daniel Plentz: “Milano è una città che, come tante città grandi, necessita di un po’ di tempo per conoscerla, è una città con molti lati nascosti. Quando abbiamo scoperto le colonne di San Lorenzo sembravano un’oasi. Noi vivevamo vicino alla fermata di Bande Nere e sembrava che Milano fosse quello. Finché dopo mesi qualcuno ha detto, guarda, provate a andare alle colonie san Lorenzo, guardate, tipo, cosa? Siamo andati e arrivato e ha detto, oh, finalmente, c’è una piazzetta delle persone, birre e quindi ci ha voluto veramente tanto a conoscere la città e di conseguenza che era la città che aprisse le porte per noi, quindi all’inizio è una città un po’ dura”.
Poi c’è stato il vostro disco d’esordio, Banana à Milanesa, e dentro c’era tanta milanesità: Enzo Jannacci, Cochi e Renato, la canzone dedicata alla Madonnina. Che rapporto è stato e soprattutto com’è stato lavorare con Jannacci?
Eduardo Stein Dechtiar: “In realtà da Barcellona siamo venuti in Italia senza sapere esattamente cosa stavamo venendo a fare, una volta arrivati abbiamo iniziato ad ascoltare tanta musica italiana per cercare di capire insieme ai due pazzi Gaetano Cappa e Marco Drago che ci hanno portato in Italia, di fare un disco e cosa aveva senso per noi fare in quel momento. Siccome facevamo cover dei Beatles abbiamo iniziato a cercare dei paralleli italiani di quel periodo lì, qualcosa che aveva anche un po’ di ironia. Abbiamo iniziato a fare delle traduzioni di quei brani con un italiano discutibile quando Google Traduttore non era così diffuso. Così abbiamo suonato quelle versioni e abbiamo conosciuto loro perché queste demo sono arrivate a Cochi e Renato e Jannacci. E siccome sono persone veramente surreali, hanno deciso di registrare con noi e hanno accettato di fare questo”.
Daniel Plentz: “C’è anche un elemento interessante che ci ha aiutato un pochino: in Brasile, la capacità di parlare di cose tristi con un sorriso è una cosa molto forte e c’era affinità nel modo in cui Jannacci trattava alcuni temi con una leggerezza rara in Europa. Percepivamo che qua se sorridevi eri fesso, mentre lui riusciva a farlo con un certo spessore e quel modo lì ci, anche molto inconsciamente all’inizio, è stato il punto d’incontro”.