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martedì, Mag 11

Siamo nell’epoca del web chiuso



Da Wired.it :

Le novità sul fronte della privacy, la fine dei cookie di terze parti e come i giganti del web stanno cercando di creare luoghi chiusi da sfruttare per l’advertising: cronache di un’internet sempre più fatta di recinti

Il web è morto”, scriveva circa quattro anni fa l’informatico e attivista Andrè Staltz. Denunciava un World Wide Web sempre più grande e allo stesso tempo sempre più chiuso: il contrario di ciò che sarebbe dovuto essere. Se all’epoca poteva sembrare una provocazione, oggi la sua sembra più una profezia.

La musica del tracciamento

In principio fu la condivisione di informazioni tra utenti. Poi gli stessi utenti divennero creatori inconsapevoli di informazioni nuove, molto più numerose e relativamente semplici da raccogliere. Così, a quasi trent’anni dalla sua pubblicazione al di fuori del Cern (era il 6 agosto 1991), potrebbe essere sintetizzata la non più breve storia del web. Cookie, codici di identificazione e tool di tracciamento online sono le note con cui preso forma la sinfonia della digital economy, ma ora la musica sta definitivamente cambiando.

Gli utenti sono stati inseguiti fin troppo nella loro navigazione, come avremmo detto un tempo, ed è tempo di finirla. Anche i protagonisti del web lo hanno capito. Anzi, la decisione è proprio loro e la ragione è più che giusta: la privacy. Eppure le trasformazioni annunciate da Google e già messe in atto da Apple, sui cui ora gli esperti di tutto il mondo si stanno arrovellando, potrebbero rendere il web un posto forse non migliore di come lo conosciamo e sicuramente non molto vicino all’idea con cui Tim Berners Lee lo ideò. Perché? Per capirlo, almeno l’ultimissima parte di quella non più breve storia va raccontata.

La novità di iOs 14.5

Da qualche giorno è stato rilasciato l’ultimo aggiornamento di iOs, giunto alla versione 14.5, che introduce una novità senza precedenti: l’App Tracking Transparency. Adesso, ogni volta che si scarica una nuova app, il sistema operativo di Apple chiede all’utente se vuole che essa invii ad altre app i dati che ha su di lui, a fini di profilazione pubblicitaria. In che senso? Beh, se vi è capitato di cercare un prodotto online e di vedere un annuncio su quello stesso prodotto dopo qualche secondo, vi è chiaro di cosa stiamo parlando.

Ogni piattaforma è in grado di conoscere ciò che gli utenti fanno al di fuori di essa: nome, data di nascita, indirizzo email, numero di telefono, cronologia di navigazione e altri dati si possono scambiare direttamente tra piattaforme o comprare da apposite banche dati. Per gli iPhone alla base di questo mercato c’è l’Identifier For Advertisers (Idfa): semplificando, si tratta di un codice univoco associato a ciascun utente che consente di riconoscerlo e seguirlo in giro per il web. Rispondere “no” alla domanda di autorizzazione posta dal sistema operativo significa impedire all’app di accedere all’Idfa, ovvero di ricevere dati sul profilo utente o di associarvene di nuovi.

Chrome e la fine dei cookie di terza parte

Google si prepara a una mossa simile. Dal 2022 – è la promessa fatta due anni prima – il suo browser Chrome non supporterà più i cookies di terza parte, seguendo l’esempio di browser meno utilizzati come Mozilla Firefox, Safari e DuckDuckGo. In concreto i cookie sono stringhe di codice informatico che permettono al server su cui è ospitato un sito web di inviare pacchetti di dati a un browser perché le ricordi. Questi dati hanno a che fare con la navigazione dell’utente generalmente intesa: credenziali, prodotti aggiunti a un carrello, cronologia, eccetera. Se per esempio entrate nell’area riservata di un sito e la volta successiva non dovete inserire nuovamente nome utente e password, è merito dei cookie.

Su un sito però possono essere presenti cookie di soggetti esterni, le cosiddette terze parti che utilizzano i dati degli utenti per propri fini, come la profilazione pubblicitaria. Le piattaforme per il programmatic advertising (che consentono l’acquiso automatico di spazi per i banner pubblicitari sui siti web in base agli interessi di navigazione degli utenti) piazzano dei cookie sui siti partner che mettono a disposizione i loro spazi a fronte di un guadagno: servono a memorizzare l’attività degli utenti su tutti quei siti per mostrargli annunci adatti all’interno di quegli stessi siti. La domanda è: nonostante le informative e la richiesta di consenso introdotte dal Gdpr, quanti utenti ne sono davvero consapevoli? Pochi. Negli anni, però, l’attenzione sul tema della privacy in rete e l’insofferenza verso pratiche poco trasparenti sono cresciute. Così Chrome ha deciso una volta per tutte di far fuori i cookie di terza parte.

Una rivoluzione nella pubblicità online

Google ha annunciato la sua mossa nel gennaio 2020 e poco dopo, in mancanza di comunicazioni analoghe sul suo sistema operativo Android, Apple ha rincarato la dose svelando la funzione App Tracking Transparency appena attivata. Si sapeva, eppure da qualche settimana se ne sta parlando come non mai: anche i meno attenti e più restii devono aver realizzato che siamo a un punto di svolta. Con iOs 14.5 Apple sta dando all’utente una possibilità di scelta inedita relativa alle app, che il concorrente Android non sembra ancora pronto a seguire. Facendolo ha rafforzato la posizione del brand in difesa della privacy, tema di cui ha fatto una bandiera. Google non arriva a questo punto, ma rinuncia a qualcosa che è stato un cardine del suo modello di business. Perché, privacy a parte, le mosse delle due aziende colpiscono la profilazione pubblicitaria.

Facebook ha messo un piedi una campagna di comunicazione in favore del tracciamento, fino a spiegare agli utenti di iOs che proprio il tracciamento garantisce la gratuità del social network. E questo nonostante Facebook sia al vertice di una piramide di cui fanno parte moltissimi altri attori che – ha denunciato lo stesso Mark Zuckerberg – si troveranno in grandi difficoltà. Sviluppatori di software ed esperti di pubblicità sono al lavoro su possibili soluzioni, ma in sottofondo resta una musica che sta cambiando per l’intero settore dell’advertising.

Gli attori coinvolti

Al di là delle alternative e dei tecnicismi in materia, la fine dei cookie di terza parte non può che portare a una valorizzazione dei cookie cosiddetti di prima parte: quelli che un sito web utilizza al proprio interno e che gli permettono in sostanza di ricordare chi sono i suoi utenti. Da soli, però, i cookie non bastano. Ci vogliono dati in grandi quantità se si vogliono utilizzare in ambito pubblicitario. Per ottenerli servono molti utenti, e preferibilmente anche molto attivi. Come si fa ad attirarli e ingaggiarli? Semplice: con i contenuti, siano essi articoli, photogallery, filmati, podcast, videogiochi o esperienze in realtà virtuale.

I siti web e le app che vogliono vendere spazi pubblicitari avranno bisogno di molti contenuti di qualità per portare traffico e hit sui banner. I professionisti e le agenzie che vogliono realizzare avvisi pubblicitari efficaci, potendo contare su profilazioni meno accurate in mancanza dei cookie di terza parte, dovranno lavorare a contenuti più curati e accattivanti (concept, copy, immagini, eccetera). Le aziende che vogliono ottenere nuovi clienti o fidelizzarli potranno contare meno sulle banche dati esterne per la definizione delle audience da colpire, perciò molti brand sceglieranno di costurirsele direttamente, usando come criterio la fruizione dei nuovi contenuti che inizieranno a produrre da parte degli utenti. Per Facebook, Google e le grandi piattaforme pubblicitarie della nostra epoca invece il discorso è sensibilmente diverso.

All’ombra dei giganti

Come ogni sito web o app, i giganti possiedono dati di prima parte sui propri utenti, con la differenza che ne hanno a centinaia di milioni o a miliardi. A sufficienza, cioè, per garantire agli inserzionisti un servizio di qualità e per non spaventarsi troppo. Anzi, considerando le difficoltà che avranno i concorrenti – sempre che si possano chiamare così – Facebook, Google e poi Amazon, LinkedIn, Twitter e TikTok potrebbero essere visti come l’unico porto sicuro per quanto riguarda la qualità dei risultati, sottraendo ulteriori risorse a piattaforme più piccole. Pensiamo alla stessa Google: mettendo al bando i cookie di terze parti su Chrome fa una rinuncia, ma può contare sui dati forniti dal motore di ricerca, da Gmail, da Maps, da YouTube e da decine di altre applicazioni. Eppure anche i giganti saranno in qualche modo intaccati dalle novità su Chrome e iOS: banalmente, non potranno più disseminare il web di tracciatori a loro piacimento. E tra le soluzioni per far fronte a questo problema ce n’è una particolarmente interessante.

La costante è che l’attenzione e la disponibilità sono risorse scarse, dunque la partita si giocherà come sempre su dove gli utenti troveranno contenuti interessanti, apprezzabili e fruibili con semplicità. Probabilmente accadranno due cose che, anzi, in parte stanno già accadendo. La prima, come abbiamo accennato, è che molti soggetti che prima non lo facevano inizieranno a produrre contenuti. La seconda è che le grandi piattaforme cercheranno di portare quanti più contenuti possibile al loro interno. Lo hanno sempre fatto, perché mantenere gli utenti attivi su un sito o in un’app significa fargli rilasciare più dati. Oggi, però, hanno un motivo in più. Facciamo un esempio: se Facebook convince un giornale a pubblicare un articolo non sul suo sito ma in esclusiva all’interno del social network, chi vuole leggerlo lo farà proprio lì e non più altrove. Semplificando molto, ad avere i dati sulla lettura di quell’articolo non sarebbe quindi il giornale – almeno non direttamente – ma proprio Facebook, che in questo modo eviterebbe di perdere i dati forniti dai cookie di terza parte e, anzi, magari ne otterrebbe anche di nuovi.

Un web chiuso

È in quest’ottica che, al di là del contentino economico dato a un settore in difficoltà, vanno letti gli accordi che Facebook e Google stanno stringendo con gli editori di news. Lo stesso vale per la continua attivazione di nuove funzionalità, l’ultima delle quali è la chat in diretta audio che Twitter, LinkedIn, Spotify e Facebook hanno copiato da Clubhouse. Pensiamo ai podcast, che ormai troviamo praticamente ovunque e che presto saranno ascoltabili anche su Facebook. Ricordiamoci le Storie, lanciate dalla presto dimenticata Snapchat e portate anche sulle piattaforme più impensabili. Riflettiamo sul perché Instagram si sia dotato di uno shop interno, che consente ai brand di vendere prodotti ai follower direttamente all’interno dell’app, senza chiedergli di uscire per raggiungere un ecommerce. E che dire di tutto ciò che sta avvenendo nel mondo di web creator e influencer? Concorsi a premi, sistemi di monetizzazione, partnership per contenuti inediti, accordi di produzione in esclusiva. Apple, Instagram, TikTok stanno investendo milioni per avere i contenuti migliori e di maggior successo al loro interno. Con l’obiettivo di mantenere sintonizzata o espandere la propria audience, com’è fin dagli albori della televisione, ma anche per ottenere dati da essa.

I giganti del web, ammoniva Andrè Staltz, stanno diventanto sempre più ricchi e funzionali, ma sempre più chiusi. E non ha tutti i torti. I contenuti sono tanti, ma esclusivi. I link sono sempre più spesso interni e, anzi, quelli che rimandano a piattaforme diverse sono spesso penalizzati. Il World Wide Web si basava su collegamenti di questo tipo: era aperto e plurale, secondo Staltz. Oggi anche la pluralità è in mano a un oligopolio di colossi tecnologici e il nostro web è fatto di recinti, in cui inequivicabilmente ci piace moltissimo pascolare. E così il paradosso vuole che gli avazamenti sul fronte della privacy possano avere conseguenze diverse, non direttamente legate alla sfera del diritto. E che a volere quegli avanzamenti siano stati proprio i colossi e non qualcun altro. Come la politica, per fare un nome a caso.

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[Fonte Wired.it]