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venerdì, Set 20

Siete pronti per i pannelli solari da interno?


Una nuova generazione di celle fotovoltaiche permetterà di riciclare la luce in eccesso che produciamo per illuminare case, uffici e luoghi pubblici. E potrebbero dare una spinta definitiva all’ascesa dell’internet of things. Vediamo come

pannelli solari
(foto: Steve Jurvetson/Flickr)

Tradizionalmente i pannelli solari si installano all’aperto. Ma anche tra le mura di casa il fotovoltaico può dire la sua. Per ottenere energia pulita con queste tecnologie, d’altronde, serve un unico ingrediente: la luce. E se quella diretta del sole è senz’altro più produttiva, di luce ne abbiamo in abbondanza anche al coperto. Anzi, ne produciamo così tanta, sia di giorno che di notte, che riciclarla sembra una pura operazione di buon senso: energia pulita, sostenibile, e praticamente gratuita. Non a caso, negli ultimi anni sono in molti a lavorare allo sviluppo di pannelli fotovoltaici indoor, ottimizzati per generare tutta l’energia possibile dalla luce presente all’interno di case, uffici, edifici pubblici. L’ultima scoperta in questo campo arriva da un team di ricercatori svedesi e cinesi, che sulle pagine di Nature Energy hanno appena presentato un nuovo tipo di cella solare organica, perfettamente in grado di funzionare al chiuso. Non sono gli unici, comunque, a lavorare in questo campo. Vediamo insieme a che punto siamo.

Riciclare, ma non solo

Illuminiamo le nostre case da secoli. E allora perché solamente di recente è nato l’interesse per i pannelli fotovoltaici da interni? La parola d’ordine in questo caso è smart. Device intelligenti, elettrodomestici intelligenti, case intelligenti, città intelligenti. Il futuro è un insieme interconnesso di sensori, dispositivi, trasmettitori, destinati a rivoluzionare radicalmente il nostro modo di vivere, rendendo il cosiddetto internet delle cose una realtà più che mai attuale. Miriadi di dispositivi sempre connessi, intenti a comunicare tra loro costantemente. E che per farlo avranno bisogno di energia. Ben poca, se presi individualmente. Ma moltiplicando le necessità energetiche di ognuno per milioni di famiglie, miliardi di case, iniziamo a parlare di un bel po’ di elettricità. O meglio, un bel po’ di batterie, che farebbero lievitare velocemente i costi, e l’impatto ambientale dell’internet of things. La soluzione perfetta però è proprio sotto il nostro naso: la luce con cui illuminiamo gli ambienti esterni, che una volta riciclata da un mini pannello solare può trasformarsi in nuova energia con cui alimentare sensori e dispositivi nelle nostre case intelligenti. Il problema, ovviamente, è che le cose non sono mai facili come sembrano.

Celle solari vs celle da interni

I pannelli solari più diffusi utilizzano tecnologie raffinate negli anni per funzionare all’esterno. E non è detto che al chiuso risultino altrettanto efficaci. “Al sole un pannello in silicio policristallino, la tecnologia più diffusa per impianti esterni, ha un’efficienza che nell’utilizzo reale si aggira attorno al 15%: converte cioè il 15% dell’energia incidente in elettricità”, spiega a Wired Thomas Brown, professore di ingegneria elettronica dell’università Tor Vergata di Roma, che è stato tra i fondatori del Polo solare organico Chose della regione Lazio. “Ma una volta posto in condizioni di illuminazione domestica l’efficienza crolla drasticamente, circa al 4%”.

Come nasce un simile crollo di produttività? È presto detto: l’efficienza di un pannello solare dipende dallo spettro e dall’intensità della luce che lo investe, e tra luci artificiali e luce solare c’è una bella differenza. Lo spettro della luce del sole ha un picco nel visibile, a lunghezze d’onda attorno ai 500 nanometri, ma circa metà dei fotoni che la compongono sono nell’infrarosso. Le luci artificiali, soprattutto quelle più moderne, sono pensate invece per produrre quasi esclusivamente luce nello spettro visibile, così da ridurre sprechi e consumi. E i pannelli solari da esterni risultano meno efficienti a queste condizioni.

Una cella solare in perovskite stampata su vetro flessibile, e ottimizzata per essere usata in ambiente chiuso (foto: Thomas Brown)

Anche nei prodotti che attualmente sono dotati di pannellini solari, come le calcolatrici o gli orologi digitali, la produttività indoor non è delle migliori. Solitamente utilizzano celle a silicio amorfo, che in condizioni di illuminazione casalinga non superano il 9-10% di efficienza. Con nuove celle fotovoltaiche sviluppate espressamente per ottimizzare la resa in condizioni di illuminazione da interni (minore intensità e spettro differente) si potrebbe migliorare notevolmente l’efficienza dei pannelli solari anche all’interno di abitazioni e uffici. E in effetti, sono ormai in molti a lavorare in questo settore in giro per il globo.

Celle organiche

Il nuovo studio di cui parlavamo, appena pubblicato su Nature Energy, è un buon esempio. I ricercatori, che fanno capo all’università di Pechino e a quella svedese di Linköping, hanno utilizzato una tecnologia differente dal più tradizionale silicio per realizzare le loro celle solari. Hanno scelto di realizzare una cosiddetta cella solare organica, che al posto del silicio utilizza polimeri, semiconduttori organici e altri composti del carbonio come materiale attivo. Scegliendo un particolare mix di materiali hanno ottimizzato la resa delle loro celle fotovoltaiche per funzionare in condizioni di illuminazione artificiale. E le hanno quindi testate ad un’intensità di luce pari a mille lux, condizioni che si possono trovare in spazi con luci artificiali molto intense, come un supermercato o uno studio televisivo, e in due dimensioni: pannelli più piccoli, da un centimetro quadrato, e più grandi, di 4 centimetri quadrati. I risultati sono incoraggianti: per il pannello più piccolo i ricercatori hanno raggiunto un’efficienza del 26,1%, mentre i più grandi si sono fermati al 23%.

Altre tecnologie

Come dicevamo, i ricercatori che hanno realizzato il nuovo studio non sono però gli unici a lavorare in questo campo. Lo stesso Brown, ad esempio, sviluppa da tempo celle fotovoltaiche per utilizzo indoor sfruttando un tipo di tecnologia differente: la perovskite. Si tratta di composti con una peculiare struttura cristallina che incorpora ioni di iodio e di piombo, e uno ione organico. Si studiano per l’utilizzo outdoor, dove raggiungono un’efficienza che si aggira attorno al 25%, ma non hanno ancora trovato ampio utilizzo per via una stabilità di funzionamento insufficiente (che condividono con le celle organiche, la cui efficienza in ambiente esterno attualmente si aggira attorno al 15%). “Mi sono interessato a questa tecnologia per una specie di intuizione – spiega Brown – attualmente non è ancora matura per un utilizzo esterno, dove per essere competitiva deve garantire un funzionamento stabile per decenni, venendo esposta a temperature elevate, condizioni meteo variali, e così via. Ma per un uso interno, in condizioni protette e per la durata di utilizzo di un dispositivo elettronico, che è solo di qualche anno, potrebbero essere assolutamente pronte”.

Da questo ragionamento sono nate diverse ricerche, che nel giro di qualche anno hanno iniziato a dare risultati incoraggianti. Inizialmente, i pannelli alla perovskite sviluppati da Brown avevano un’efficienza del 12% in condizioni di illuminazione casalinga. Ma con l’ultimo prototipo, presentato lo scorso anno sulle pagine di Nano Energy, il fisico di Tor Vergata ha raggiunto un’efficienza del 27% a 200 lux di illuminazione, e circa del 20% con esposizione diretta al sole. Rispetto al silicio inoltre la perovskite ha il vantaggio di poter essere stampata utilizzando speciali inchiostri, tagliando nettamente i costi di produzione, e rendendola adatta per molti tipi di applicazione. Come film di plastica (Pet) flessibile, che raggiungono un’efficienza del 13%, o l’applicazione su vetro flessibile ultrasottile, che in uno studio ancora non pubblicato ha dimostrato di raggiungere un’efficienza del 20%.

 

pannelli solari
Con questo dispositivo è possibile “stampare” film di semiconduttori a perovskite o organici da
soluzione (inchiostri). Quando evapora il solvente rimane un film spesso 100-400nm. (foto: Thomas Brown)

Quanti ne servono?

Dati alla mano, Brown ha calcolato anche che dimensioni dovrebbero avere i suoi pannelli fotovoltaici per alimentare differenti tipi di dispositivi elettronici. Per sensori a bassa potenza, come quelli per la temperatura, per il monitoraggio dell’aria o per l’umidità, servirebbe un’area di 3 centimetri e mezzo per 3 centimetri e mezzo in presenza di 200 lux con lampadine led, e circa 2×2 cm a 500 lux (le zone più illuminate, come i corridoi). Per sensori che richiedono un po’ più di energia, come quelli di movimento, si arriva a poco più di 5×5 a 200 lux e 3×3 a 500. E per dispositivi ancora più complessi, una telecamera di sicurezza, si arriva ad aree di (rispettivamente) 7×7 e 4×4.

I vantaggi rispetto alle batterie? Innumerevoli: i pannelli fotovoltaici non vanno cambiati, si smaltiscono una sola volta insieme al dispositivo che alimentano (con cui possono essere addirittura integrati utilizzando materiali flessibili), possono essere minuaturizzati con più facilità. E rappresentano un modo per riciclare la luce (in eccesso) che produciamo nelle nostre case, negli ambienti di lavoro e negli spazi pubblici. Attualmente in commercio si trovano quasi unicamente pannelli indoor realizzati con celle al silicio. E i pochi disponibili con tecnologie più avanzate sono ancora per lo più dimostratori, ovvero prototipi utilizzati per mostrare le potenzialità industriali di una nuova tecnologia. Secondo Brown, comunque, i tempi sono quasi maturi. Con il dovuto interesse da parte delle aziende, tecnologie come quella che sta perfezionando potrebbero essere scalate velocemente per una produzione industriale, e permetterebbero di accelerare a loro volta l’ascesa dell’internet of things, della domotica, dei big data per la salute, la pianificazione energetica e le infrastrutture.

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