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lunedì, Mag 11

“Silvia Romano si è convertita all’Islam”. Ok, e quindi?



Da Wired.it :

La 25enne di Milano non aveva ancora messo fine a un anno e mezzo di prigionia, che già molti volevano vederci chiaro sul suo vestito “islamico”: inutile issare i tricolori ai balconi, se poi una connazionale che rientra in patria da musulmana diventa una disgrazia

Dobbiamo capire se si tratta di una conversione sentita o no”. Silvia Romano non ha ancora finito di scendere la scaletta del suo aereo appena atterrato a Ciampino, quand’ecco che la voce di un giornalista commentatore della diretta soppesa un interrogativo di inderogabile importanza: nei suoi 18 mesi all’altro capo del mondo da prigioniera di uno dei gruppi jihadisti più violenti del pianeta, al-Shabaab, quella ragazza sorridente di 25 anni che sta per rivedere sua madre si è convertita all’Islam? E se non si è convertita, da dove arriva (citando sempre il nostro reporter) “la scelta di presentarsi all’arrivo in Italia indossando una veste tradizionale africana”? Perché, insomma, si è vestita come loro, quelli che le hanno tolto la libertà? 

L’acuto commentatore non è rimasto solo a lungo: poco dopo sui siti web del Corriere della Sera e Repubblica, cioè i due maggiori quotidiani del paese, si parlava già apertamente – col solito lessico giornalistico cheap – di “giallo della conversione” della volontaria milanese: sul Corriere, Fiorenza Sarzanini ricostruiva le delicate trattative diplomatiche che hanno portato alla liberazione della ragazza: “La giovane arriva vestita con gli abiti tradizionali delle donne somale e il capo coperto, appare in buone condizioni di salute. Viene subito trasferita nell’ambasciata italiana in Somalia e quando le chiedono di cambiarsi spiega di essere «una convertita», chiarisce di volerne «parlare subito con mia mamma appena la rivedrò»”. Notando anche che la conversione potrebbe essere stata poco sentita, appunto: “Si tratta di una giovane donna fiaccata da una prigionia durata un anno e mezzo e da pressioni psicologiche atroci, dunque soltanto dopo il rientro in Italia si capirà se sia davvero questa la sua scelta”.

Corriere.it del 10 maggio 2020

Altri, sui social network, hanno addirittura ventilato che la “tunica islamica” (citiamo l’homepage del Corriere) fosse parte dell’accordo di riscatto raggiunto coi militanti jihadisti di al-Shabaab, mentre il direttore del Giornale Alessandro Sallusti ha scritto che per lui “è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista”, nientedimeno. E la sua stimata pubblicazione è uscita in edicola con la solita prima pagina cialtrona, che ci ha visto addirittura uno “schiaffo all’Italia” (giuro).

Le prime pagine di Libero e Il Giornale dell’11 maggio 2020

Che la venticinquenne Silvia Romano, dopo 18 mesi da reclusa in un angolo di mondo poverissimo e violento, non abbia trovato il tempo di recarsi in una boutique di alta moda Made in Italy è in effetti deplorevole, ma si tratta di una critica che lascia il tempo che trova (la Somalia, peraltro, ha 15 milioni di abitanti: difficile che abbiano partecipato tutti al rapimento e si meritino una damnatio memoriae sartoriale collettiva). Più imbarazzante, per così dire, è che le attenzioni mediatiche e politiche si siano fin da subito concentrate sulla sua conversione religiosa. La notizia, se così vogliamo chiamarla, ci sarebbe anche, per carità. Ma l’urgenza di strillarla direttamente sulla pista di Ciampino, mentre una ragazza rapita sta riabbracciando i familiari, dice molto più della maniacalità ossessiva di quello di cui ci convinciamo noi che delle presunte colpe di ciò in cui crede o non crede lei. Detta in termini molto semplici: se anche Silvia Romano si fosse convertita all’Islam, che cosa cambierebbe?

E a questo punto i più obiettano: i tagliagole l’hanno costretta!. E magari l’obiezione corrisponde al vero, intendiamoci: nessuno di noi ha modo di sapere cosa significa venire privati di un anno e mezzo di vita per trascorrerlo da reclusi in una terra remota, alla mercé di briganti senza scrupoli. La volontaria milanese sarà rimasta vittima della sindrome di Stoccolma? Forse. I suoi rapitori le avranno mosso violenze psicologiche tali da costringerla ad abbracciare un culto religioso senza lasciarle scelta? È verosimile (com’è verosimile che sia invece venuta a contatto anche con un Islam non radicalizzato e dei suoi praticanti, magari persone che le sono state in qualche modo d’aiuto). Ma che ne sappiamo? In mancanza d’altro abbiamo l’obbligo minimo di credere a lei, che al momento stando ai report delle ultime ore dice di aver scelto senza pressioni dei suoi carcerieri.

E consentitemi: il punto è che dovremmo fermarci prima di avanzare una qualsiasi di queste domande. O meglio ancora chiederci perché ce le stiamo chiedendo. Una giovane donna che si pensava morta o scomparsa è tornata a casa dai suoi affetti dopo un anno e mezzo di lontananza: la miracolosa notizia del 10 maggio 2020 era – ed è ancora – anzitutto questa. A che serve chiederci con questa premura se Silvia Romano è tornata cattolica o musulmana? Misuriamo forse le sue condizioni di salute al rientro in base al dio a cui dichiara di obbedire? Magari inizieremo a pentirci di aver pagato il riscatto? Se ne deve dedurre che, da musulmana, una ragazza di Milano risulta meno italiana? Se anche fosse stata plagiata dai suoi rapitori – un fatto che è ovviamente tutto da dimostrare: e auguri a chi se ne dovrà occupare, finché lei si dice serena e pacificamente convinta della sua libera scelta – Silvia Romano non sarebbe più una nostra connazionale rimpatriata dopo un lungo e terribile sequestro? Sì, va bene, ha scelto di indossare una tunica somala: ma davanti ai livelli di complessità della sua vicenda internazionale, che diavolo ci importa di come si è vestita per il volo di ritorno?

Appendere una bandiera tricolore al balcone o inserirla nel nome utente su Twitter appaga, non costa nulla ed è a prova di qualsiasi scemo; essere italiani quando il patriottismo da astratto slogan diventa un atto concreto, invece, a quanto pare è tutto un altro paio di maniche. Non stupisce, quindi, che i più sagaci difensori dei patri confini non abbiano tardato a concentrare le loro attenzioni sulle stime dei milioni di euro pagati per il riscatto (“nulla accade gratis”, ha chiosato in diretta tv un notissimo statista padano caduto in disgrazia, che pure di milioni di euro svaniti nel nulla dovrebbe intendersi), le vesti africane e il credo religioso della figliola prodiga.

Per fortuna l’intelligence nazionale, che nel suo operare non tiene ancora conto dei cretini sui social network, non salva gli italiani in base al loro dio. Anche perché è la Costituzione repubblicana – un po’ più avveduta e sinceramente patriottica dei bandierini – a ricordare all’articolo 8 che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”: se anche Silvia Romano si fosse convertita all’Islam, al buddismo o ai riti orfici sarebbe libera di professare il suo credo come e quando le pare, senza causare psicodrammi nazionali da parte di illustri commentatori che pensano di poter lanciare anatemi a mezzo tweet dal divano davanti a una storia di un rapimento durato un anno e mezzo (chissà se sono gli stessi per cui i due mesi di lockdown contro il coronavirus sono stati una reclusione intollerabile a cui ribellarsi, signora mia).

Potremo passarne al setaccio e criticarne ogni scelta, di Silvia Romano: ci sarà tempo per farlo. Ma lo faremo consapevoli di stare giudicando una donna che ha attraversato il mondo per aiutare altre persone, ci ha trovato un inferno e ne è uscita col sorriso. Almeno per oggi, fatevi un favore, parliamo di questo.

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[Fonte Wired.it]