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lunedì, Nov 11

Spagna, quel puzzle bloccato che ruota intorno alla Catalogna


La scommessa di Sánchez è fallita: il Psoe vince ma non può governare e il bubbone di Barcellona alimenta gran parte del consenso a Vox, fagocitando Ciudadanos e risollevando i popolari. Ora serve un compromesso

(Foto: Eduardo Parra/Europa Press via Getty Images)

Quattro elezioni in quattro anni e la Spagna è ancora ferma. Stavolta, però, con qualche elemento in più per cercare di muoversi. Il più importante è senza dubbio Vox, il partito neofranchista di estrema destra guidato dal 43enne Santiago Abascal: un anno fa non aveva alcuna rappresentanza parlamentare, oggi è la terza forza del paese con 52 seggi, un balzo dai 24 dello scorso aprile. Intorno, il terreno sembra bloccato: i socialisti (non) vincono ancora, nel senso che portano a casa un risultato simile a quello di sei mesi fa (120 seggi contro 123) mentre i popolari di Pablo Casado riprendono forza e guadagnano una ventina di deputati, saltando da 66 a 88. Anche col complicato appoggio di Podemos (da 42 a 35 seggi, Pablo Iglesias sembra ora disponibile a parlare col Psoe) Pedro Sánchez non può farcela: la maggioranza alle Cortes, anzi al Congresso, è fissata a 176.

Dunque la sinistra ne toccherebbe 158 mentre il blocco conservatore 140, aggiungendo i 10 di Ciudadanos, i liberali di Albert Rivera che si avviano all’estinzione risucchiati dal vortice Vox, si sale a 150. La strada, insomma, sembra obbligata: serve un esecutivo di minoranza con (almeno) l’astensione dei popolari, come successe nel 2016 a parti invertite all’ultimo Mariano Rajoy. O addirittura una “gran coalición” all’iberica, soluzione ancora più complessa.

Chi rimane col cerino in mano è proprio Sánchez che ha spinto per nuove elezioni e appunto è arrivato primo, di nuovo, ma senza poter governare (dove l’abbiamo già vista?). Perde dunque la mossa di aver alzato la posta rafforzando la componente di Vox che rende ogni alleanza non solo difficile ma sostanzialmente inutile, anche a causa del sistema elettorale ma pure delle posizioni ultimamente molto più rigide del leader socialista rispetto ai partiti indipendentisti catalani. Ci ha governato per un po’, dalla caduta di Rajoy fino alle scorse elezioni primaverili ma per l’opposizione ad aprire trattative sull’indipendenza della regione quelle formazioni hanno affossato la legge di bilancio aprendo la strada alle scorse elezioni di aprile. Il punto è che lo stallo estivo e il nuovo voto sembra aver spento anche il forno di sinistra con Iglesias, che ha perso 7 seggi: bel risultato.

Per inciso, ma neanche troppo visto che rimane il cardine intorno a cui ruotano tutti gli scenari, i catalani di Erc, guidati dal leader carcerato Oriol Junqueras, prendono 13 seggi, Junts per Catalunya 8 (guadagnandone uno), gli estremisti di Candidatura d’unitat popular, finora assenti alle tornate nazionali, due e i partiti baschi 12 seggi. Il resto va alle altre autonomie: Navarra, Canarie, Cantabria, Galizia. In sintesi, ben 23 deputati fanno riferimento alle posizioni indipendentiste di Barcellona: sono il quinto partito su scala nazionale e rappresentano milioni di elettori che tutti i governi hanno finora ignorato, aggravando una questione in piena putrescenza dopo il referendum del primo ottobre 2017 e che promette ulteriori conseguenze dopo le recenti, pesanti condanne dei leader indipendentisti.

Se non si risolve la questione catalana, spiegano molti osservatori, non si sblocca il governo di Madrid. La piazza di Barcellona ha evidentemente alimentato il consenso per Vox, saldandosi tuttavia a un’ondata di sovranismo in salsa spagnola, ben oltre le radici neofranchiste, che nello specifico si nutre di un quadro di surreale instabilità politica e territoriale e di scarso coraggio dei leader politici. Finendo per affidarsi a posizioni xenofobe, antifemministe e machiste che tuttavia ricalcano, almeno per il momento e nonostante un certo rafforzamento in tutte le circoscrizioni, la vecchia geografia franchista.

L’ottimo risultato dei separatisti (coi cui voti il leader socialista potrebbe riuscire ad agguantare la maggioranza, ipotesi al momento fantascientifica, come visto per l’intransigenza assoluta sull’indipendenza), l’ombra bruna di Vox, la relativa debolezza di Podemos – che si è pure spezzata regalando qualche seggio al nuovo partitucolo Más País – spinge dunque verso un compromesso coi popolari. Difficilmente gli spagnoli (e i mercati, per via del forte indebitamento verso l’estero e un debito che sfiora il 100% del Pil, con la Germania in pole fra i creditori) sopporterebbero una quinta elezione legislativa nel giro di un quadriennio.

Casado ora aspetta una proposta che per molti elettori socialisti è indecente ma obbligata, che potrebbe anche includere come condizione un passo indietro di Sánchez. Se il Psoe è all’angolo, neanche il Pp può tirare troppo la corda: un partito come Vox che pesca in un campo che in parte si sovrappone al suo, o che può facilmente mutare posizioni, non è una buona notizia neanche per il giovane leader conservatore, a rischio fagocitazione come accaduto in molti paesi vicini. E come già successo proprio in casa, alla stessa Ciudadanos.

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