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giovedì, Mag 20

“Spegnere” internet per limitare il dissenso è diventato una cosa normale



Da Wired.it :

Ventinove paesi hanno bloccato, limitato o rallentato l’accesso alla rete almeno 155 volte solo nel 2020. Queste misure vengono spcciate spesso come di prevenzione o utili per limitare violenza e odio online, ma riducono le libertà personali e favoriscono altri abusi

Spegnere internet o bloccarne l’accesso per limitare la libertà di espressione è un’opzione diventata comune ormai in diverse parti del mondo. Fece un notevole scalpore quando a novembre del 2019 l’Iran bloccò per diversi giorni la rete internet nel proprio paese in concomitanza con la repressione violenta di alcune proteste di piazza molto partecipate. Da quel momento però in tutto il 2020, e nonostante l’anno pandemico, sono stati 29 i paesi ad avere agito in modo analogo, limitando o rendendo impossibile servirsi della rete e dei suoi servizi almeno 155 volte, secondo i dati forniti da un recente report dell’associazione KeepItOn che monitora il problema.

Anche se il numero totale di questi interventi è leggermente calato rispetto al 2019 (216) – che superavano quelli del 2018 – parliamo del terzo anno di fila in cui questi eventi superano i 150 casi. Gli stati coinvolti nel 2020 sono scesi solo di 4 unità rispetto all’anno prima. Dieci sono africani, 8 mediorientali, 6 asiatici, 3 si trovano in america latina o nei Caraibi e due sono europei: stati semi autoritari come Bielorussia e Turchia.

Il paese che più di tutti ha bloccato le connessioni a internet è stato l’India, con 109 spegnimenti, soprattutto nella regione contesa con il Pakistan dello Jammu e Kashmir, dove si è verificata un’interruzione ogni due settimane nel 2020. Un caso eclatante è stato anche quello dell’Etiopia che ha lasciato senza internet per due settimane 100 milioni di persone nel pieno della pandemia a causa del conflitto nel Tigray. KeepItOn segnala poi alcune prime volte di paesi che non erano ancora intervenuti interrompendo le proprie connessioni internet come la Tanzania e Cuba, a testimoniare che questi metodi stanno venendo sempre più imitati.

Negli ultimi mesi stiamo già vedendo una situazione del genere in Myanmar, dove la giunta che ha preso il potere a inizio febbraio dopo un colpo di stato ha limitato quasi da subito l’accesso alla rete in diverse zone del paese. Ma quali sono i modi usati da governi più o meno autoritari per reprimere il dissenso agendo sulla rete e come funzionano tecnicamente questi blocchi?

Un primo modo è oscurare del tutto la rete come nel caso dell’Uganda o del Myanmar. In Uganda quest’anno è stato completamente tagliato l’accesso a internet per più di quattro giorni in concomitanza con le elezioni presidenziali di metà gennaio. Su ordine dell’ente che regola le telecomunicazioni nel paese tutti i provider di servizi internet hanno sospeso l’accesso alle loro reti fino a nuovo ordine. Come ha spiegato però a Rest of the world Jason Pielemeier, direttore delle politiche del Global Network Institute, azioni come questa sono insostenibili per un lungo periodo perché interessano molti servizi importanti, “comprese le comunicazioni del governo”.

In Myanmar la giunta militare ha spento internet tra l’una di notte e le sei e trenta di mattina, consentendo all’esercito di compiere raid per arrestare manifestanti pro democrazia. I dati recenti di Netblocks, organizzazione britannica che monitora i blocchi della rete, confermano che internet in Myanmar funziona a circa il 13% dei livelli ordinari tra l’una di notte e le nove del mattino.  Durante il giorno a essere colpiti da tempo nel paese sono i dati internet mobili – ed è questo un secondo modo di limitare l’accesso alla rete. Una misura messa in atto per rendere più difficile l’attivismo e l’organizzazione di proteste tramite i social network, anch’essi parzialmente bloccati nel mese di febbraio. Sono invece state risparmiate le reti wifi private e aziendali.

Questo sistema sembra però non essere così efficace in Myanmar: molti contestatori, per aggirare la censura, oltre a munirsi di Vpn, si prendono il rischio di collegarsi a reti aperte, nelle zone in cui funzionano, e le manifestazioni non sono cessate. Inoltre, come effetto collaterale del blocco dei dati internet, sono stati duramente colpiti gli affari di molte startup digitali e le compravendite tramite social, generando ulteriore malcontento. I dati mobili di solito vengono bloccati a livello dei fornitori di servizi internet, ma qualche paese può andare anche oltre manomettendo i Border Gateway Protocols (Bpg) che regolano l’accesso di dati dentro e fuori lo stato, di fatto mandando potenzialmente offline tutta la rete nazionale. Tra le interruzioni di internet capitate nel 2020 il 73% ha interessato i dati mobili.

Un’altra opzione efficace per limitare l’accesso alla rete è rallentando la connessione. È quello che ha fatto il Bangladesh l’anno scorso nei campi profughi presenti sul suo territorio dove vivono i rifugiati Rohingya. L’India già nel 2019, nello stato del Kashmir, limitò la banda per i dati mobili al 2G, rendendo difficile lo scambio di immagini, video e l’uso di molte app.

A marzo di quest’anno anche la Russia ha provato per la prima volta a rallentare l’accesso a Twitter, ufficialmente a causa di alcuni contenuti illegali che circolavano sulla piattaforma, ma in realtà molto probabilmente come reazione alle proteste a sostegno dell’oppositore di Putin, Alexey Navalny. Ma in quelle ore a risultare difficilmente raggiungibili, oltre a Twitter, sono stati domini come Reddit.com e com e anche siti governativi. Il tentativo di censura, finito in un mezzo pasticcio, mostra una volta di più gli effetti indesiderati in cui si può incorrere quando si cerca di manipolare la rete.

Un tipo di spegnimento molto più mirato è poi quello che può colpire app o siti web di messaggistica. Questa tattica è stata usata per esempio già nel 2018 dall’ex dittatore sudanese Omar Al-Bashir durante le proteste di piazza che hanno portato alla sua deposizione. Secondo gli esperti, diversamente dai blackout generali, il blocco delle comunicazioni in tempo reale via web è una misura che può protrarsi per molto più tempo, anche per settimane o mesi. Nelle interruzioni forzate di internet spesso viene usato più di uno di questi metodi insieme.

Da quanto emerge dal report di KeepItOn, tra le motivazioni che ultimamente hanno spinto i governi a bloccare o limitare internet ci sono i tentativi di nascondere l’instabilità politica, la volontà di reprimere i gruppi di opposizione e di contrastare proteste di piazza, o di rivendicare una vittoria in elezioni contestate. In molti casi però la spiegazione ufficiale è stata la necessità di fermare qualche tipo di violenza, amplificata da internet o dai social network, senza però che queste misure abbiano avuto risultati apprezzabili. Anche la lotta alle notizie false online è uno degli argomenti usati per giustificare questi interventi sproporzionati che ledono invece diritti fondamentali come quello di espressione e l’accesso alle informazioni.

Inoltre, soprattutto in paesi instabili o in conflitto, i blocchi di internet possono nascondere violazioni dei diritti umani o crimini di guerra, oltre a ostacolare i giornalisti e il racconto di quello che accade. Lo scorso anno in Etiopia, Bielorussia, India, Guinea e altri paesi, le organizzazioni per i diritti umani e i gruppi della società civile hanno segnalato gravi abusi sulla popolazione durante i blackout di internet. Per tutti questi motivi è molto preoccupante constatare che questo genere di pratiche si stiano sempre di più affiancando ai più tradizionali sistemi di censura e repressione in molti paesi.

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[Fonte Wired.it]