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Stefano Benni, come lo scrittore ci ha regalato una delle lenti più luminose con cui re-immaginare il mondo

da | Set 10, 2025 | Tecnologia


A metà mattina, questo 9 settembre, arriva una notizia a dir poco inaspettata: è morto lo scrittore Stefano Benni. È sempre così, quando muoiono le persone “famose” – chissà che freddura avrebbe elaborato lui, commentando quest’etichetta – perché la prima reazione è sempre l’incredulità. Gli scrittori, in particolare, creano mondi in cui ci sembra di poter vivere in eterno. E in effetti lo faremo, ma senza di loro – come presenza fisica su questa terra – sembra tutto un po’ meno magico. E il 2025 sembra particolarmente inclemente dal punto di vista di pezzi del nostro immaginario condiviso, pur molto diversi tra loro, che si spengono: Eleonora Giorgi, Oliviero Toscani, Adriana Asti, Pippo Baudo, Giorgio Armani. La morte di Benni ci scuote però su corde ancora differenti, ancora più profonde.

Non ce ne eravamo accorti, non avevamo voluto accorgercene, ma Benni era mancato in qualche modo già da tempo: a causa di una lunga malattia aveva sospeso le sue attività da tempo. Ricordandone l’amicizia e la fulgida carriera, lo scorso dicembre sul magazine culturale online Lucy, Goffredo Fofi (il grande critico letterario anche lui nel novero dei morti illustri di quest’anno) l’aveva confermato nel modo più lucido e straziante: “ormai molto malato e non più in grado di comunicare”, lo descriveva, per poi aggiungere: “Una vecchiaia davvero inclemente la sua, ma il destino è cieco e la vita riserva brutti scherzi anche a chi davvero non li merita”. E come può essere crudele e beffardo il destino se toglie la voce e la comunicazione a chi aveva tentato per tutta la vita di mostrarci come proprio crudele e beffardo è il destino, il mondo, il pensiero?

Un lunghissimo viaggio nell’invenzione di mondi

Nato il 12 agosto 1947 a Bologna, città amatissima e che rimarrà a lungo centro simbolico e vitale della sua narrativa assieme agli Appennini dove s’era guadagnato il soprannome di “Lupo”, Stefano Benni ha declinato la parola in tutti i mezzi che la sua fantasia gli consentiva: è stato autore di racconti e romanzi, ovviamente, che erano diventati celebri, amati in modo trasversale e tradotti in molti paesi; aveva scritto per giornali come L’Espresso, Linus, Repubblica e il Manifesto, regalando ai lettori inconfondibili elzeviri in cui la cultura era sempre un mezzo per mostrare le contraddizioni della realtà; aveva scritto anche per il teatro e la tv ed era stato autore anche di Beppe Grillo, alcune delle sue battute più caustiche entrate nella storia anche della politica di questo paese (nel 1983 l’equazione comico-matematica “Pietro Longo=P2”, recitata in uno sketch a Domenica In, costò quasi la testa sua e di Grillo).

Espressione di una sinistra ideologica sì ma mai paludata mai ripiegata su se stessa, e ancora di più di un intellettualismo pragmatico, impegnato, propositivo, Benni era soprattutto un idealista fantasmagorico, e proprio l’infinita invenzione di mondi, di magie ma anche di disincanti era la sua chiave non solo per decifrare la realtà ma anche di decostruirla, e lasciarla nuda nei suoi paradossi, nelle sue complessità più vivide, quelle più urgenti su cui agire. Viene il dubbio, a pesare la nostalgia con cui oggi rileggiamo i suoi scritti, che i suoi moniti siano stati in maggior parte inascoltati. Restano però le sue storie così vivaci, ironiche, sbalordite e sbalorditive. L’esordio del 1976, Bar Sport, è la vivisezione della provincia italiana attraverso il suo luogo di aggregazione più nevralgico, mentre Terra! (1983) è un manifesto apocalittico che immagina un mondo esasperato da corruzione e inquinamento, dove però non si perde la speranza ultima che poi in fondo è il sorriso. La compagnia dei Celestini (1992) inaugura un filone importante nei suoi romanzi, quello di un’infanzia elevata a dimensione ingenua eppure consapevolissima, contrapposta a un mondo adulto spesso corrotto, avido, insensibile (Margherita Dolcevita del 2005 inseriva lo stesso genere in un messaggio ancora più anti-consumistico e ambientalista).

Il rapporto di Stefano Benni con la realtà

La realtà che Benni dipingeva nei suoi libri era al contempo trasfigurata e tangibilissima. Le sue città e i suoi fiumi potevano avere nomi inventati, i suoi detective potevano essere reinterpretazioni maschili dal nome animalesco (Comici spaventati guerrieri), le sue vicende potevano essere ambientate nelle profondità marine (Il bar sotto il mare), le amicizie nascere nelle più appartate delle camerette (Achille piè veloce), eppure il suo sguardo era sempre lucidamente fissato sulla società reale, i cui difetti e le cui faglie assumevano quasi una dimensione senza tempo. In fondo a tutto rimaneva l’umanità, che questo scrittore espansivo e generoso (fu lui a importare in Italia Daniel Pennac, per certi versi autore a lui molto simile) amava e difendeva in ogni modo e che infilava nelle crepe anche più oscure dei suoi racconti più grottechi e paradossali.

Le cose muoiono: questa è la prima cosa che non puoi cancellare, una volta che l’hai davvero scoperta. Le cose guariscono, le cose ricominciano, le cose tornano. Questa è una cosa bella da tenere in testa”, si legge in Saltatempo, sua autobiografia infantile anche qui mascherata, re-immaginata, resa incantata ed eterna, e forse già espressione più limpida dell’eredità che ci ha lasciato. “La speranza fa il gioco del sole nel bosco”, si nasconde cioè, scriveva qualche riga dopo, e di certo senza Stefano Benni oggi siamo un po’ tutti più al buio.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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