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venerdì, Nov 08

Studiare i cambiamenti climatici a scuola è una buona idea, ma non basta


L’annuncio del ministro Fioramonti di rendere obbligatorio lo studio dei cambiamenti climatici e della sostenibilità ha fatto il giro del mondo. Ma servirebbe un corso accelerato anche per gli adulti

Dal prossimo anno scolastico, la crisi ambientale diventerà materia d’insegnamento nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. E così l’Italia sarà il primo Paese al mondo dove lo studio dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile diventerà obbligatorio, dalle elementari fino alle superiori.

L’annuncio è arrivato per bocca del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti e ha fatto subito il giro del mondo. Ne hanno parlato testate prestigiose come il New York Times, il Guardian o la CNN. Curiosamente, invece, in Italia non se l’è filato nessuno. Poche righe sui principali giornali italiani, indifferenza nei salotti serali del battibecco politico. Nemo propheta in patria? O più semplicemente, nessuno crede più agli annunci dell’ennesimo ministro dell’istruzione che vuole portare la crisi ecologica nel sistema educativo italiano? Già, perché a dire il vero, non è la prima volta che dal ministero arrivano promesse simili, senza però che sia mai cambiato alcunché.

(Photo by Mairo Cinquetti/NurPhoto via Getty Images)

Fioramonti aveva lanciato l’idea già a fine settembre, nei giorni caldi dello sciopero globale sul clima organizzato dal movimento Fridays For Future. Allora tutta l’attenzione si era concentrata sulla controversa proposta del ministro di giustificare le assenze degli studenti che avrebbero preso parte alle manifestazioni contro l’inerzia dei governi nell’affrontare l’emergenza climatica. Gli unici a prendere sul serio l’idea di Fioramonti  erano stati gli insegnanti di geografia – materia bistrattata e messa all’angolo dalla riforma Gelmini – che in una lettera di protesta avevano rivendicato a sé la materia. A nome del Coordinamento Nazionale SOS Geografia, si fece “sommessamente notare che i suddetti scottanti e ineludibili temi fanno già parte, da oltre vent’anni, del programma di geografia nelle scuole superiori. Laddove la disciplina è presente, ovviamente!

Faccenda di non poco conto è infatti dove inserire cambiamenti climatici e sostenibilità nei programmi scolastici. Meglio un insegnamento ad hoc o più opportuno distribuire gli argomenti nelle ore di scienze e geografia? L’idea del ministro è di introdurre, già dal prossimo settembre, 33 ore dedicate ai cambiamenti climatici nello spazio di educazione civica: una specie di “cavallo di troia” (parole sue) per poi “infiltrare” la crisi ambientale negli insegnamenti di scienze e geografia.

A dire il vero, l’editoria scolastica italiana – che per esperienza non dà mai molto credito agli annunci ministeriali – già da alcuni anni è impegnata a rivedere i testi di scienze per dare più spazio ai temi dell’ambiente e della sostenibilità, un tempo confinati in qualche box di fondo pagina. E così nei capitoli dedicati al ciclo del carbonio si spiega come la deforestazione e l’impiego di combustibili fossili abbiano esasperato l’effetto serra, o come l’abuso di fertilizzanti in agricoltura abbia stravolto i cicli dell’azoto e del fosforo, o ancora di come le attività umane sia causa di una drammatica perdita di biodiversità. A dimostrazione che la scuola è già più avanti della politica.

Senza contare che, anche grazie alla mobilitazione dei Fridays For Future, le discussioni sulla crisi climatica sono già entrate nelle aule e uscite nelle piazze. E come provano alcuni sondaggi, la sensibilità di molti ragazzi e ragazze sulle questioni ambientali è ben più alta di quella degli adulti. Infine occorrerebbe aprire il capitolo della formazione degli insegnanti, chiamati a dialogare con gli studenti di temi complessi e sensibili in cui, oltre agli aspetti scientifici, entrano in gioco questioni di natura sociale, politica, etica ed economica, che vanno dalla giustizia climatica alle scelte alimentari, fino all’attivismo.

Riecheggiano allora le domande scomode che hanno dato vita ai climate strike, quando a genitori, insegnanti e persino ministri che cercavano di convincere gli studenti a tornare tra i banchi, loro ripetevano con pazienza: “Che senso ha studiare per un futuro che rischiamo di non avere?“. Oppure: “Cosa conta l’istruzione se i governi non ascoltano gli scienziati?”. E infine: “Perché studiare le barriere coralline che tra qualche anno non esisteranno più?”.

Intendiamoci: l’educazione è vitale, e ben venga l’insegnamento dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile. Perciò, caro ministro, ci aspettiamo che all’annuncio seguano i fatti. Ma detto fra noi, non possiamo attendere che i più giovani diventino adulti per rimediare ai nostri casini, casini talmente grandi da meritarsi un posto nei libri di testo. La sensazione è che servirebbe un corso serale anche per noi adulti. Accelerato. E obbligatorio.

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