Seleziona una pagina
lunedì, Set 09

Sull’omicidio di Elisa Pomarelli la stampa italiana ha mostrato tutte le sue lacune


“Gigante buono”, “amore non corrisposto”, “raptus di follia”: così il giornalismo da clickbaiting trasforma l’ennesimo femminicidio in una soap di sangue e passione

Da qualche giorno, i giornali danno grande risalto alla storia di Elisa Pomarelli, 28enne scomparsa da due settimane, poi trovata morta in una zona boscosa del piacentino. Per l’omicidio è stato arrestato il 45enne Massimo Sebastiani, in quello che è un nuovo, ennesimo caso di femminicidio.

La notizia dovrebbe stare nel fatto che la violenza sulle donne è più che mai viva in Italia. Eppure, si è preferito mettere da parte la figura della vittima concentrandosi su quella del carnefice Massimo Sebastiani. E restituendoci un racconto volto, in fin dei conti, a farci empatizzare con quest’ultimo.

I titoli recenti ci hanno raccontato di un raptus, di un uomo distrutto e in lacrime che avrebbe fatto una stupidata, di un “gigante buono” che di fronte agli innumerevoli rifiuti della donna avrebbe perso il controllo, di un amore troppo grande al punto da diventare ingestibile. Insomma, di un disperato che per cecità d’amore ha fatto quello che non doveva fare e che si è comunque pentito del suo gesto, dimostrandosi collaborativo con le forze dell’ordine.

Ma la storia è diversa da com’è stata raccontata. Sebastiani non accettava di essere rifiutato sessualmente dalla giovane donna, la definiva “fidanzata” mentre a legarli c’era un rapporto di amicizia e basta. La loro non era quella storia d’amore disperato raccontata, piuttosto una relazione in cui l’uomo pretendeva un sentimento che non esisteva. Inoltre, quell’uomo tanto sensibile e disperato che avrebbe avuto uno scatto d’ira e si sarebbe poi costituito in lacrime alla polizia, dimostrandosi pentito, ha occultato il cadavere della vittima in una zona impervia e ha metodicamente fatto perdere le sue tracce (e quelle del cadavere) per due settimane.

Di fronte a questa mistificazione dei fatti, il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, ha alzato la voce sottolineando come sia “inaccettabile l’incultura della superficialità nel trattare, anche nella scelta dei termini, i casi di femminicidio”. I sindacati della stampa hanno affermato che il diritto di cronaca “non può trasformarsi in un abuso e in uno sfruttamento ai fini ‘commerciali’ per qualche copia o qualche clic in più“.

Le motivazioni per cui diverse testate hanno raccontato la storia con il taglio sbagliato sta in effetti nella arretratezza culturale di molti giornalisti italiani su un tema tanto delicato com’è quello della violenza di genere, ma anche nelle logiche del clickbaiting. Per quanto riguarda il primo punto, anni di corsi e workshop professionali volti a sensibilizzare gli addetti del settore sullo storytelling dei crimini d’odio sembrano non aver portato i loro frutti. In Italia tra l’estate del 2017 e quella del 2018 ci sono stati 120 femminicidi. Eppure si va avanti con quella narrazione fatta di scatti d’ira, amori non corrisposti e via dicendo, riflesso di una società patriarcale.

Ma c’è anche un problema di spettacolarizzazione dei fatti di cronaca, così da riempire i lunghi pomeriggi dei talk show sulla tv generalista o le paginate sui media commerciali e creare una narrazione da serie tv che meglio permetta di monetizzare in termini di vendite e share.

Potrebbe interessarti anche





Source link