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giovedì, Mag 25

Takeshi Kitano trasforma i samurai nella yakuza | Wired Italia



Da Wired.it :

Lo sfarzo della produzione è di quelli mai visti nei film di Takeshi Kitano (che già aveva girato un film ambientato nel Giappone feudale, Zatoichi, molto meno costoso), la scala è quella dell’epica. Che non è proprio lo stile che più si addice ad un cineasta come lui, decisamente più a suo agio nell’insultare, nel prendere in giro e nel fare il cinico. Forse per questo in Kubi quasi tutti i samurai hanno rapporti omosessuali, in una programmatica revisione del mito virile, e forse per questo dentro un film serio dall’inizio alla fine Kitano inserisce se stesso nei panni di uno dei generali, come linea comica. Ogni volta che è in scena tutto cambia e diventa una commedia, una cattiva, senza senso e capace di rivelare l’assurdità di questi personaggi che si prendono così sul serio. Più la scalata del suo personaggio procede più tutto il film è contaminato dalla sua follia.

Non è possibile davvero paragonare Kubi al grande cinema giapponese di guerre, regni e samurai. Non ne ha la caratura, non ne ha la statura classica ed epica. E soprattutto non ha l’eccezionale chiarezza di lettura della trama, quella che rende i grandi affreschi storici anche dei film per tutti votati al grande incasso. Kubi è semmai uno strano ibrido, l’ennesimo della carriera di Kitano: un film storico raccontato da qualcuno che non crede in quello che credono tutti. Per Takeshi Kitano non c’è niente di più scemo della morte e della violenza, l’ha sempre presa in giro sovrarappresentandola, e qui tutte le morti sono un’occasione di umiliazione e mai una di gloria. I personaggi non sì curano dei cadaveri, i samurai non sono poi così coraggiosi e anche i servi più devoti appena ne hanno occasione decapitano i loro padroni e scappano come vigliacchi livorosi.

Sono diversi anni che questo, che ad oggi forse è il cineasta più importante del Giappone, non riesce a centrare un film come faceva regolarmente negli anni ‘90. La trilogia di Outrage, tutta sugli yakuza, non ha l’energia e la capacità innovativa di una volta, sempre di più i suoi film sono vicini al cinema convenzionale e lontani da quello matto che lo aveva reso famoso. Kubi è la perfetta espressione di questa doppia anima. Desidera essere cinema epico mainstream, qualcosa di tradizionale che parli di un momento del Giappone e sia un’avventura spettacolare tra grandi nobili e anche tutta una serie di ultime linee, fatte di contadini e ninja in pensione, ma poi trova un senso solo quando esplode un’ironia totalmente demenziale, quando lui non resiste e deride i suoi personaggi. Kubi è una costante lunga attesa per il ritorno in scena del suo personaggio, l’unico che abbia una personalità, un senso filmico e sappia animare le scene con qualcosa di diverso da una scansione stanca delle ritualità da cinema di samurai. Per fortuna almeno nel finale acquista un ruolo più centrale.



[Fonte Wired.it]