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giovedì, Lug 11

Test Invalsi, se i giovani non sanno inglese e matematica la colpa non è (solo) loro


Come sempre all’inizio dell’estate i mediocri risultati delle prove scolastiche e le uscite del manager di turno ripropongono il bombardamento a suon di luoghi comuni. Ma nessuno sa individuare le cause né offre soluzioni

(Foto: Duilio Piaggesi/Fotogramma/Ipa)

A parte che prima del 2005-2006 le prove nazionali Invalsi non esistevano. Quindi, di fatto, ci mancano elementi per confrontare gli studenti di oggi anche solo con quelli di vent’anni fa. Sono più o meno somari di quanto fossero i fratelli maggiori, gli zii o addirittura anni addietro i genitori quando sedevano sui banchi di scuola? Più o meno competenti in italiano, matematica e inglese, le bestie nere da quel che sembrerebbe a giudicare dal rapporto presentato ieri alla Camera dei deputati?

Il punto tuttavia è un altro.

I risultati dei test effettuati nei mesi scorsi per fotografare lo stato delle competenze dei giovani a diversi livelli del percorso di studio stanno facendo molto discutere in queste ore, portandosi dietro il solito corollario di polemiche catastrofiste sulle nuove generazioni, sui cittadini del futuro, sull’ignoranza imperante. Qualche titolo: “Studenti italiani ignoranti”, “Metà maturandi analfabeti in matematica”, “Risultati disastrosi degli studenti italiani”. E ancora: “I maturandi non sanno l’inglese e uno su quattro è grave in matematica”, “Inglese mio non ti conosco”, “Alle medie uno su tre non capisce un testo di italiano”. E così via.

Come sempre all’inizio dell’estate, per favorire cinismo e stereotipi da ombrellone, non mancano le sparate di questo o quel manager che raccontano di come di posti di lavoro ce ne siano tanti, ma ahilui siano tutti laureati in scienze della comunicazione e non si trovino più saldatori in giro.

L’ultimo in ordine di tempo è stato l’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono. Le cui parole, come quelle in passato di colleghi manager come John Elkann nel 2014, non aiutano il dibattito ma lo polarizzano: “Nei prossimi due o tre anni avremo bisogno di 5-6 mila lavoratori ma non so dove andarli a trovare. Carpentieri, saldatori – ha spiegato – abbiamo lavoro per 10 anni e cresciamo ad un ritmo del 10% ma sembra che i giovani abbiano perso la voglia di lavorare. Il lavoro è dignità, se uno si accontenta di fare il rider a 500-600 euro… Da noi un lavoratore medio prende 1.600 euro. Allora se uno volesse guardare al futuro non si accontenterebbe di fare il rider, anche perché non è che fare il rider è meno faticoso di fare il saldatore. Purtroppo mi sembra che abbiamo su questo cambiato cultura”. Dopo scienze della comunicazione, ora non si può neanche consegnare pizze in santa pace. E a quanto pare Fincantieri ha anche un problema di recruiting molto serio, se non sa dove trovare certe professionalità.

Fuori dalla provocazione, tutte queste voci hanno delle ragioni di fondo. Così come i test Invalsi, che segnalano ad esempio come, nei diversi gradi del ciclo scolastico, ragazze e ragazze che strappino risultati “adeguati” o “più elevati” rispetto agli standard sono il 65,4% in italiano, il 58,3% in matematica, il 51,8% in inglese lettura (livello B2) e il 35% nell’ascolto. Una mezza tragedia, con le differenze e articolazioni del caso di grado in grado. Così come avrà ragione Bono, che non trova saldatori sulla piazza. Il punto è che queste notizie, invece di spingerci a ragionare sulle cause e magari proporre alcune soluzioni possibili, si fermano al vecchio refrain dei “giovani carne da macello”.

Non solo cyberbulli e “sdraiati” ma anche ignoranti e sfaticati (vecchia riedizione dell’evergreen bamboccioni). Questo, più o meno, l’identikit che viene disegnato a ogni inizio d’estate a cavallo fra prove Invalsi, maturità, compiti per le vacanze con la solita lettera del prof illuminato che invita gli studenti a conoscere il mondo e le reazioni sdegnate che spiegano no, bisogna spaccarsi la schiena sui libri, crisi aziendali massacranti e altre imprese che invece non trovano a chi dare un posto. Col condimento, oltre che del manager preoccupato, del puntuale gestore di stabilimento che (giustamente) non trova baristi factotum che si massacrino dodici ore al giorno per poche centinaia di euro mentre lui magari paga concessioni demaniali ridicole e non fa gli scontrini.

Ci ricaschiamo ogni anno. Senza che nulla cambi, senza avere davvero la patente per poter dire che prima fosse meglio o peggio o che genitori, professori e istituzioni non abbiano responsabilità in merito: in fondo, sia in quanto educatori familiari che in quanto classe docente, i primi sono al vertice di questa catena. E se un figlio non comprende un articolo di giornale o non spiccica una parola d’inglese mi viene in mente che neanche mamma e papà debbano passarsela meglio. Con la differenza che avrebbero avuto, volendo, molti anni in più per recuperare.

Qualcuno si è chiesto cosa fare. Alex Corlazzoli sul Fatto, per esempio, ha spiegato che non c’è “nulla di nuovo sotto il sole. Da oltre un decennio l’Istituto nazionale di valutazione ci consegna questa fotografia. L’Invalsi si ferma lì. Il suo compito s’arresta alla raccolta dati. I sintomi della malattia della scuola italiana li conosciamo da anni. Manca la diagnosi e manca la cura”. Ne cita alcune, per entrambi i fronti. Fra le diagnosi, i divari territoriali fin dalla tenera età (“Un anno di scuola in Veneto vale come due anni in Calabria” aveva spiegato lo scorso anno Roberto Ricci, direttore generale dell’Invalsi) e l’assenza di servizi per la prima infanzia proprio dove ce ne sarebbe più bisogno. Fra le cure, servirebbe una strategia ampia e cosciente del ministero. Anche Christian Raimo su Internazionale ha spiegato come, per esempio per l’inglese, “risultati così clamorosamente bassi – sia nella lettura sia nell’ascolto – non possono che indicare anche la mancanza di un’adeguata classe docente”.

Non si tratta di dare responsabilità a professori e genitori. Si tratta, semmai, di non affibbiarle a ogni costo agli studenti e alla “categoria giovani” nel suo complesso, bombardando periodicamente quella che, di fatto, è una mal tollerata minoranza nazionale (appena 8 milioni di 0-14enni su 60 milioni di abitanti) col solito ordigno di luoghi comuni.

Al contrario, bisognerebbe interrogarsi sulle responsabilità di fondo: partendo dal presupposto che siano tutti uguali, se i risultati mutano così tanto territorialmente e le differenze si acuiscono avanzando nel percorso scolastico (più basse alle elementari, più profonde alle superiori), fino a ritrovarsi a fare una triennale universitaria che pare quasi un liceo fuori tempo massimo, di chi sarà mai la colpa? In fondo, fra famiglia, docenti, istituzioni e alternanze scuola-lavoro, i ragazzi sono coinvolti da un ping pong di cui sono spesso solo la maltrattata pallina.

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