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venerdì, Feb 19

The Dissident è il doc sugli ultimi istanti di vita di Jamal Khashoggi, vittima del regime saudita



Da Wired.it :

Nel film documentario si racconta l’omicidio del reporter dissidente con materiali inediti e scioccanti. Abbiamo intervistato il regista, il premio Oscar Bryan Fogel

Il caso di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del Washington Post, ucciso il 2 ottobre 2018 nel consolato del suo paese ad Istanbul, mentre chiedeva dei documenti per contrarre matrimonio, è significativo dell’impunità resa possibile su scala globale dai governi democratici che non prendono provvedimenti nei confronti di regimi autoritari solamente per salvaguardare un tornaconto economico. È la storia della comunità internazionale che permette a uno stato di fare letteralmente a pezzi un giornalista scomodo purché continui a comprare armi, venderci il petrolio o a finanziare con miliardi di dollari le nostre economie”. Bryan Fogel, regista premiato con l’Oscar nel 2017 per aver raccontato in Icarus il doping di stato attuato dalla Russia, non ha problemi a individuare il cuore nero del suo nuovo film, The Dissident, dal 12 febbraio in streaming su Miocinema.it: un racconto dell’orrore che vede come vittima sacrificale Khashoggi e come carnefice il principe ereditario Mohammad bin Salman, ma anche come complici tutti i governi e i politici che hanno ignorato le conseguenze di quell’omicidio e continuano a fare affari con il regime saudita o a incensarlo dietro lauto guadagno fingendo di non sapere, come accaduto di recente al senatore di Italia Viva Matteo Renzi.

È vero che, come si vede nel film, il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha incaricato Agnes Callamard di svolgere un’indagine sul caso”, spiega Fogel “ma quando lei stessa ha affermato la necessità di agire di fronte a questo orrendo crimine, il Consiglio ha rivelato di avere le mani legate, perché ha solo un potere di osservare i fatti e riportare le violazioni. Spetterebbe all’Assemblea Generale dell’Onu intervenire oppure al G20, che però nulla fanno per salvaguardare interessi economici”.

Il film ricostruisce la vicenda, già ampiamente raccontata dai giornali internazionali, della relazione tra Jamal Khashoggi e il principe, mandante del suo omicidio: i buoni rapporti del passato si sono dissolti quando Khashoggi, dopo avere abbandonato la madrepatria, ha iniziato a esprimere nei propri articoli il dissenso nei confronti dei suoi regnanti. E racconta l’attività dello stesso giornalista per utilizzare Twitter, in accordo con l’attivista Omar Abdelaziz, per contrastare l’esercito di agenti organizzato per diffondere sul social la propaganda di regime. Ma soprattutto, come in un thriller, ricostruisce le ultime ore e gli ultimi minuti di vita del giornalista, strangolato e fatto a pezzi nel consolato da una squadra di agenti arrivati appositamente a Istanbul dall’Arabia Saudita, attraverso le inedite trascrizioni dei dialoghi intercorsi all’interno del consolato e addirittura degli agghiaccianti spezzoni sonori che documentano l’aggressione e il soffocamento. “Nel film”, racconta Fogel “ci sono molti materiali inediti, come tutti i messaggi privati intercorsi tra Jamal e la sua fidanzata Hatice Cengiz, con cui si era recato al consolato. Ma il documentario si avvale soprattutto della collaborazione delle autorità turche, a cui ho chiesto di mettermi a disposizione i documenti d’indagine e di farmi parlare con le persone che hanno seguito l’inchiesta per divulgarle nella maniera più ampia possibile. In questo senso la loro disponibilità è stata ammirevole”.

Come è stato possibile che ci fossero addirittura i file audio delle conversazioni avvenute tra Khashoggi e i suoi assassini?

Nessuno ha mai detto come ciò sia avvenuto e da parte di chi, ma è chiaro che qualcuno aveva messo delle microspie nella media room del consolato, con cui sono state registrate quelle prove. Ho avuto accesso non solo alle intere trascrizioni, ma anche ai filmati di polizia riguardanti il consolato. Io non so se dietro ci siano motivazioni politiche o economiche, ma bisogna dire che la Turchia è stato l’unico Paese al mondo che ha fatto qualcosa perché l’Arabia Saudita fosse inchiodata alle sue responsabilità per questo omicidio. E questo va sottolineato al di là di quelle che possano essere le ingiustizie in cui è coinvolto il presidente Erdogan.

Qual è il motivo che l’ha spinta a raccontare questa storia?

Già nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, ho seguito la storia con attenzione nei mezzi di informazione. Presto, insieme all’idea che potesse essere stato ucciso nel consolato, si è diffusa la narrazione secondo cui Khashoggi appartenesse alla Fratellanza musulmana, e che fosse un terrorista. Ma leggendo i suoi articoli sul Washington Post e i suoi tweet ho capito che erano sciocchezze: non era un estremista, ma un riformatore moderato che stava cercando di chiedere al proprio paese di rispettare i diritti umani, di lasciare la libertà di stampa e parola.

Cosa rappresenta per lei il caso Khashoggi nello scenario internazionale?

È il simbolo della battaglia  per la libertà di opinione e di stampa che stiamo fronteggiando nelle democrazie di tutto il mondo. In tutto il pianeta assistiamo ad un aumento dell’autoritarismo, in nazioni come il Brasile, nelle Filippine, o negli Stati Uniti, dove per troppo tempo c’è stato un Presidente che ha minato le basi della democrazia stessa con l’idea che si possa agire al di sopra della legge. Per me quello di Khashoggi rappresenta l’ultimo omicidio della Primavera araba, che è stata una sollevazione dei giovani e degli attivisti per portare un vero cambiamento nella regione e diffondere la democrazia ed è stata soppressa con il ritorno di regimi autoritari.

Cosa dice la storia di Khashoggi del giornalismo?

Quando io ero giovane accendevo la tv, o leggevo il New York Times e sapevo che quelli raccontati erano i fatti realmente accaduti. Oggi viviamo in un’era in cui a causa di internet e dei social media dobbiamo essere molto attenti e diligenti per capire qual è la verità. La storia di Khashoggi dimostra che è un momento molto complesso nel mondo per essere un giornalista o qualcuno che vuole raccontare la verità, anche perché si agisce su un terreno scivoloso e la nozione di verità viene messa alla prova costantemente: sui social qualcuno che racconta un fatto vero può essere travolto da centinaia di commenti in cui si inventano narrazioni alternative della realtà per sviare l’attenzione dalla verità.

Nel film si racconta come il governo saudita spiasse il telefonino di Jeff Bezos, proprietario del Washington Post dove Khashoggi scriveva i suoi editoriali indigesti a bin Salman. Alla luce di questi fatti per caso ha pensato di vedere i diritti di The Dissident ad Amazon per la distribuzione internazionale?

In un mondo perfetto questo film sarebbe stato comprato da un’azienda di streaming in modo che fosse visto in tutto il mondo. Ma ciò che accade per l’Onu o per il G20 non è diverso dal modo di ragionare di queste media company che, attraverso le proprie piattaforme, potrebbero divulgare informazioni così rilevanti, ma in realtà non vogliono fare i conti con le potenziali perdite degli azionisti derivanti da eventuali controversie o con la perdita di guadagni in una determinata regione del mondo. E sappiamo che alle società come Amazon interessano solo il profitto e la crescita. Per questo tutto ciò che può ostacolarli viene ignorato.

 

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[Fonte Wired.it]